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Bronco Billy

Regia di Clint Eastwood vedi scheda film

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La recensione su Bronco Billy

di scapigliato
8 stelle

Se ne va in giro col suo circo, tra il barocco e il felliniano, di città in città, a far spettacoli western per tutti, soprattutto per i “suoi piccoli amici”, e li fa anche gratis per gli orfanotrofi e i manicomi criminali. Si chiama Bronco Billy McCoy, è scontroso, burbero e incazzoso, ma quando si tratta di animali, bambini e donne è pronto a tutto per difenderli. In apparenza sembra uno di quei cowboy da propaganda governativa degli anni ’50, in realtà Bronco Billy è uno dei tanti “ultimi arrabbiati” eastwoodiani. L’unica retorica del film è infatti quella posticcia del boss del circo, appunto Bronco Billy, che anacronisticamente fa la parodia di se stesso per poter crearsi un mondo che non c’è più. Insomma, Bronco Billy, Gancio, il Duca Scatman, il giovane disertore, l’indiano apache e la sua squaw, sono i diversi che fanno un Paese. Sono una famiglia di rifiutati che si ostina a credere in un mondo che non c’è più. Simbolica e antologica la scena dell’assalto al treno. Sia perché viene confessata la poetica estwodiana del “vivere” essendo sé stessi, sia perché visivamente il regista ci propone l’assurdo, il ridicolo, il grottesco di un gesto antistorico, imbarazzante, pirandelliano. Così pirandelliano che se all’inizio ti fa sorridere, in seguito ti commuove, anzi un po’ ti rattrista. Sotto quel tendone a stelle e strisce, che è poi l’America più vera, quella della provincia, ci sono indiani e cowboy, neri, matti, donne facili, tutti a simboleggiare una grande famiglia di diversità che per Clint è il valore aggiunto dell’America stessa. Un Paese che viene infatti ritratto con l’incisività dei suoi due generi più rappresentativi: il western e l’on the road. É un western moderno, indiscutibilmente, ma è anche un viaggio picaresco tra le diversità e le bellezze della provincia americana, lontana anni luce dalle contaminazioni spersonalizzanti della metropoli (da cui il personaggio di Eastwood è fuggito), ma anche molto e troppo conservatrice, pericolosamente conservatrice.
Ma l’inattualità del film, che perpetua ogni epoca allontanandosi da ogni epoca, mostra una lucidità autoriale con cui Clint Eastwood nuovamente affonda il discorso sui rapporti umani, a lui molto cari perché sono la base dell’etica di un Paese. In un rapporto d’amore o di amicizia, come di filiazione o fraternità, ciò che conta è la presenza e non l’assenza. Eastwood invece, usa i luoghi dell’assenza per parlare della presenza. Il suo distacco, la sua scontrosità e la sua incazzosità, proverbiali nel film (un po’ in tutti i suoi film), sono il segno opposto della partecipazione emotiva, della mitezza e della tolleranza, ma il vecchio Clint sa come inclinare i cuori e svegliare le testoline pensanti. Le sue scelte anticonvenzionali fanno di lui un uomo etico in un Paese ormai perso nel consumismo, nell’arroganza politica e nella frenesia economica. Non c’è più posto per i Bronco Billy del vecchio West, che possono rivivere solo nelle caricature posticcie e affrettate di inesausti nostalgici. Un giorno anche Clint Eastwood purtroppo non ci sarà più, e toccherà a noi “giocare” ai Bronco Billy, agli indiani e ai cowboy, per rivivere un mondo e un uomo che non ci sono più.

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