Regia di Edward Dmytryk vedi scheda film
Tutti conosciamo (almeno chi ama il cinema e lo segue da vicino) le terribili vicende personali che hanno segnato la vita (ed anche la carriera e gli esiti “artistici” del suo percorso “creativo”) di Edward Dmytryk. Mi riferisco alla sua famosa “delazione” (un pegno da pagare per il rientro nei ranghi) all’epoca dell’insensata “caccia alle streghe” e del processo contro i “dieci di Hollywood” che rappresenta uno dei momenti più drammatici e bui della nostra epoca, una vergognosa caduta (non la sola) dei principi libertari di una nazione come l’America che ne fa spesso impropriamente un vanto (ma che in più di una circostanza si è dovuta vergognare per come sono stati “disattesi”).
Il discorso che ne consegue, si può sintetizzare come un problema di natura “etica” che riguarda proprio il rapporto fra individuo e società, tra libertà e legge, che quando degenera (come appunto è accaduto in tale circostanza) da origine a tragedie senza precedenti, a violenze, rivolte, repressioni e a intollerabili “tradimenti” che mettono a dura prova le coscienze e le condotte (im)morali di chi non è sufficientemente forte (eroe) da contrapporsi o fronteggiare la “pressione”.
Ho sempre pensato - e l’idea cresce, acquisisce una forma più concreta e certa ad ogni nuova visione di questa pellicola - che Ultima notte a Warlock abbia in qualche modo rappresentato per Dmytryk l’occasione o il pretesto (ma forse sarebbe meglio definirlo il “tentativo” magari inconscio) di esporre il “suo personale punto di vista la riguardo”, e con questo, le ragioni che lo costrinsero a compiere quel passo, di trovare insomma una qualche giustificare per quell’azione infame (e non sono il primo a notarlo nemmeno qui sul sito, segno che qualche traccia c’è ed è in forte evidenza) proprio per le sotterranee valenze autobiografiche che ci intravedo, tanto che immagino che il racconto, pur solidamente costruito ed egregiamente svolto, non sia in fondo che un appiglio per “ripulirsi un poco la coscienza”. Intendiamoci bene, non è che il regista “giochi” per questo “sporco”, come si suol dire, perchè oggettivamente il risultato complessivo non può assolutamente mettere in discussione la sua assoluta buona fede (ne fanno testimonianza proprio le sequenze migliori e la sofferta complessità dei diversi personaggi, il modo stesso in cui Dmytryk tenta con successo di “umanizzare” persino le figure dei banditi , differenziando in mezzo a loro – anche con una certa efficacia esplicativa - i “buoni” dai “cattivi”, senza fare di ogni erba un fascio). Analizzato in quest’ottica il risultato, allora, Warlock ( in pratica uno dei soliti, classicissimi villaggi di molte storie del west) potrebbe assurgere a un significato più “universale” e rappresentare perfettamente il macrocosmo della nazione “America”, appunto, e i personaggi che in quel villaggio si muovono e agiscono, diventare la rappresentazione tipicizzata della società corrispondente, assumendo i ruoli di coloro che operano e interagiscono all’interno delle istituzioni – e delle leggi - che in essa trovano origine ed esplicitano i loro poteri).
Forse una lettura di tal genere è un poco estremizzata, ma aiuta a riflettere su molte scelte e su una costruzione decisamente insolita e originale che rappresenta proprio uno degli aspetti più interessanti e innovativi di questo film (che potremo definire uno dei più intriganti western - e fra le opere più riuscite del regista stesso - che siano stati prodotti ad Hollywood sul crinale conclusivo degli anni ’50 del secolo scorso) che ribalta (o demistifica) molti degli stereotipi del genere, pur restando nel solco della tradizione: i cowboys per esempio, o meglio i “banditi” così detti fuorilegge che impongono con la violenza e con metodi spesso deprecabili (come sparare alle spalle - e qui accade in più di un’occasione - quasi ad affermare ancora una volta il concetto che il fine giustifica sempre i mezzi che si utilizzano per conquistarlo), i detentori insomma del “potere prepotente della prevaricazione” anche ideologica, non potrebbero essere interpretati come i “sovversivi” coloro che “devono” essere combattuti e neutralizzati? Di fronte a loro però i contadini (la coscienza collettiva di una maggioranza silenziosa) non riescono trovare la coesione necessaria per reagire, e sono di conseguenza costretti a rivolgersi a una forza esterna, a un uccisore di professione, al “funereo” Blaisdell, che opponendo a una violenza un’altra violenza per altro ugualmente illegale e privata, non raggiungerà altro scopo che quello di peggiorare ulteriormente la situazione rendendola più precaria e destabilizzata. Sarà allora Gannon, uno dei banditi “ravveduti” che, accettando il posto di vicesceriffo e acquisendo la solidarietà dei suoi concittadini, riuscirà, con il suo ribaltamento concettuale di “bene” e male, a ristabilire l’ordine, la pace e la legge nel paese.
Ecco: è sicuramente il personaggio di Gannon il punto chiave del tracciato, perché a me sembra che proprio in lui voglia in qualche modo identificarsi in forma traslata Dmytryk, forse per liberarsi, o semplicemente attutire un poco, il suo complesso di colpa che deve essere stato davvero devastante.
Se si rimane sul versante del “privato personale”, tutto va bene e il percorso (terapeutico) può essere stato fortemente propedeutico, ma guardandolo col disincanto dell’oggettività, credo che si debba rilevare invece l’insostenibilità (o meglio la mancanza di “tenuta”) di una tesi che può apparire persino suggestiva, ma che non “regge” fino in fondo, poiché come è evidente, non si può ragionare (magari lo si può fare in un film, non certo nella vita) semplicemente su concetti astratti avulsi da una concreta realtà che sono quasi “etichette” predefinite come “legge”, “società”, “disordine”, “individualismo”, “anarchia”, senza però spiegare con esattezza di quale società, di quale individualismo, di quale disordine si parla. Chi sono insomma quei fuorilegge dei quali ci vengono presentati soltanto gli aspetti più superficiali ed esteriori? Perché sono fuorilegge e perché vogliono imporre la loro volontà? E che cos’è quella legge in nome della quale a un certo punto Gannon tradisce i suoi amici di un tempo e il suo stesso fratello (capita l’antifona?), una legge “idealizzata” per la quale rischia persino la vita e la sua stessa felicità? Ma non si sottolinea però (e qui per tornare al personale sarebbe stato necessario farlo) che non sempre legge e giustizia si identificano e non sempre (o meglio quasi mai) la legge è davvero uguale per tutti (o difende davvero gli interessi generalizzati). E in effetti allora, qui a Warlock, la legge ristabilita (secondo la retorica enunciazione del giudice Holloway) è “semplicemente” quella di un losco proprietario di miniera che ha utilizzato tutti i mezzi asua disposizione (inizialmente servendosi proprio di Blaisdell) per bandire dal paese due suoi dipendenti troppo turbolenti e poter fare di nuovo i propri “porci” comodi.
Seguire questa strada (o meglio il metodo interpretativo che potremmo definire di introspezione psicoanalitica relativamente al vissuto del regista) significherebbe però pretendere di esporre la storia come se fosse un trattato sociologico finendo per perdere così il senso e il nesso (persino il piacere) della visione, perché certamente (a mio modesto avviso) c’è tutto questo (e le ottiche di lettura possono essere variabili come le circostanze e i posizionamenti del pensiero), ma ci sono per fortuna anche tante altre cose, temi secondari ma non meno fondamentali e altrettanto suggestivi, che poi alla fine sono fascinosamente preponderanti. Si pensi per esempio alla chiarezza e alla coerenza dei due personaggi femminili, alla mancanza di ipocrisia o di falsi pudori con cui ci vengono rappresentati, soprattutto quello splendidamente reso da Dorothy Malone (“tutta la vita in una notte” dice a Gannon la sua donna, e non si può non comprendere la rassegnata amarezza di una constatazione così profonda) o - per contrapposto - all’equivocità “innovativa” dei rapporti fra Blaisdell e Morgan che hanno sottili valenze di natura omosessuale esplicitate con insolita “chiarezza”... si pensi all’ incisiva bellezza dello script, un’ottima sceneggiatura di Robert Alan Arthur che trae ispirazione da un romanzo di Oakley Hall e lo rielabora con una inaspettata modernità di “linguaggio”. Si consideri soprattutto la ricchezza “variegata” dei caratteri originali che vengono rappresentati (i tre carismatici protagonisti) primo fra tutti quello magistralmente (e coraggiosamente) interpretato da un superbo Anthony Quinn, l’amico-guadia del corpo zoppo dal comportamento sessuale ambiguo, per non tacere dell’inusuale ruolo di cattivo egregiamente risolto da Henry Fonda con le sue due colt d’oro e il nero vestito che lo avvolge e della straordinaria ambivalenza caratteriale di un Richard Widmark ancora una volta in stato di grazia…
In sostanza, un grande western, ricco di atmosfera e di idee, strutturato sul confronto tra l'individualismo anarchico dei pionieri che fu alla base della corsa verso l'Ovest e il finale trionfo (si fa per dire) del buon senso inteso come ripristino dell’ordine, che prevalse una volta “impiantate” le comunità dei colonizzatori, infarcito di seducenti reminiscenze che hanno radici lontane e palpabilmente “avvertibili” (il personaggio della indomita Malone; i sottili riferimenti a Il cavaliere della valle solitaria; le atmosfere “surriscaldate” degli assalti e dei duelli). Insomma una galleria di personaggi (e di situazioni) di notevole spessore capaci di riassumere come meglio non sarebbe possibile (sublimandoli), tutti i modelli codificati del genere.
Lasciamo allora da parte le fuorvianti interpretazioni “storicizzate” e godiamoci senza troppi patemi d’animo o inutili interrogativi, i risultati complessivi (perché il film è di quelli che davvero ti travolgono facendoti palpitare) di una fra le più spettacolari pellicole del genere che ha il pregio di rimanere fortemente impressa nella memoria… di quelle insomma che nonostante il tempo che passa, non si dimenticano tanto facilmente.. e se sarà stata utile nel privato anche per Dmytryk.. tanto meglio! (ma non facciamocene o un problema o peggio non tentiamo di ricercare in questo “una limitazione percettiva” del suo valore).
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