Regia di Sergio Corbucci vedi scheda film
Il film che vanta innumerevoli tentativi di imitazione. Molti, riusciti, qualcuno meno.
La transizione dal western classico allo spaghetti italiano si completa definitivamente con questo titolo di Corbucci. Django maltratta tutta la linguistica fordiana e incupisce ulteriormente quella leoniana, portando all'esasperazione le tematiche dell'individualismo umano, dell'homo homini lupus, del sangue facile, della carneficina. Django, più ancora dei 3+1 western di Sergio Leone, che pure è il deus ex machina del genere all'italiana, è stato il chiaro ispiratore di tutte le pellicole a venire. Pellicole che per molti sono film di serie B, con sceneggiature di poco conto, panem et circenses gladiatorio dato in pasto alle voluttuose fauci del popolo bue che non chiedeva altro a quei tempi: visione snobistica e degradante. Negli spaghetti lo spettatore trovava tutto ciò che avrebbe desiderato dal buon vecchio John Ford e non aveva mai osato chiedere: vengono svelati gli istinti più brutali che si celavano sotto il sorrisetto amabile del grande eroe della frontiera, e viene smontata la dimensione mitica e atemporale e la calano nella realtà vera, palpabile. Si parla sempre impropriamente di antieroi per designare i "buoni" degli spaghetti, ma questi sono eroi reali, autentici, quelli sono eroi omerici che nulla hanno a che fare con l'epopea storica della frontiera.
Django (Nero) è un eroe reale. Anche più rispetto all'uomo senza nome leoniano. L'uomo senza nome non aveva coordinate geografiche, né storia: spuntava dal nulla, portava scompiglio, risolveva i problemi prima di tutto suoi ed eventualmente di chi ne aveva bisogno, spariva senza lasciare tracce così come era venuto. Era un uomo sereno, dalla calma olimpica, mosso sì da egoismo e dal proprio interesse particulare, ma mai agitato da propri antichi livori (C'era una volta il west fa storia a sè: è lo spaghetti western meno leoniano di tutti, e anche il meno spaghetti di tutti). Di Django invece sappiamo che viene dal nord, che ha perso la donna amata per colpa del generale sudista Jackson, che ha un'amicizia col capo dei rivoltosi messicani. Ci sono affetti personali, ci sono ruggini mai sopite: Django non plana dal nulla. E tanto per rimarcare la sua volontà di realismo, Corbucci immerge il suo eroe nel fango, in una città fantasma, con un cielo plumbeo, opprimente. I rapporti di forza sono molto simili a Per un pugno di dollari, due bande rivali, di delinquenti di identica risma, fra cui emerge l'errante cow boy che le spazza via entrambe. Ma mentre Eastwood propaga virile sprezzo del pericolo e una buona dose di spacconeria, l'eroe interpretato da Nero è uno sconfitto, lo vediamo in tutta la sua umana debolezza, con le mani spappolate a cercare di raffazzonare un'ultima difesa. Trascina dietro di sè una bara, che contiene fisicamente la soluzione (la mitragliatrice) e metaforicamente il suo dilemma (la morte della donna amata); Django è curvo, ripreso spesso di spalle, affondante nel fango, a differenza dell'andatura fiera ed eretta dell'eroe leoniano sui suoi fiammanti cavalli. Django è davvero l'incarnazione dell'idea di base degli spaghetti: il processo di defordizzazione del genere che Leone aveva iniziato, Corbucci qui lo porta a termine.
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