Regia di Mario Monicelli vedi scheda film
Grande film, e scusate la banalità. È una delle opere più rappresentative del cinema italiano, dove maggiormente l’Italia e quind gli italiani sono raccontati senza retorica né balordi luoghi comuni, trasportando la realtà dei fatti con crudo e impietoso realismo. Dopotutto i quattro sceneggiatori in ballo (il dream team Age-Scarpelli-Vincenzoni-Monicelli) non erano degli sprovveduti, quando volevano illustrare una storia lo facevano con rigore e allo stesso tempo con semplicità. Ne La grande guerra rievocano, a modo loro, il primo conflitto mondiale dall’ottica di due personaggi, il ruffiano romano Oreste Jacovacci e il borioso milanese Giovanni Busaccia, loro malgrado finiti in quell’inferno e costretti ad una convivenza forzata in trincea e in camerata. Affiancati da svariati commilitoni provenienti dalle più disparate regioni italiane, guidati dall’ umano colonnello Gallina e talora deliziati dalla presenza della puttana Costantina, vengono incastrati dai nemici e fucilati.
Diretto con irridente efficacia, con puntate non rare di amarezza, è fondamentalmente una commedia all’italiana in ambiente bellico, dunque tendente inevitabilmente al dramma corale e agrodolce. È probabilmente il film più completo di Mario Monicelli, cineasta che ha visto due guerre e non ha mai perso il gusto beffardo e cinico della risata, quello in cui più s’incontrano le sue vocazioni cinematografiche: una più brillante, un’altra più sottotono, un’altra ancora più intensa. La forza trainante, comunque, sta nella meravigliosa alchimia instaurata tra i mostri sacri Vittorio Gassman e Alberto Sordi, che si rubano la scena a vicenda all’insegna di un fair play artistico davvero felice. Ma se il più teatrale e comunque straordinario Gassman si trova più a suo agio nelle vesti di personaggi non totalmente da commedia e più inclini ai toni della tragedia, la vera carta vincente sta in un Sordi assolutamente memorabile, straordinario nell’impersonificazione di un personaggio codardo e piaggiatore, indolente e acre, al quale non è concessa una fine lieta. È suo l’urlo nel finale, che mette davvero i brividi, il “non voglio morire… so’ un vigliacco!”, vera metafora dell’intero film e sigillo di bravura impareggiabile. Non da meno la combriccola di spalle e comprimari, in cui è giusto ricordare il sobrio Romolo Valli, il toccante Folco Lulli, il caratterista Tiberio Murgia e la fulgida prostituta Silvana Mangano.
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