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Una pura formalità

Regia di Giuseppe Tornatore vedi scheda film

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La recensione su Una pura formalità

di LorCio
8 stelle

Chi non conosce il Tornatore de Il camorrista potrebbe rimanere spiazzato. Cosa c’azzeccano quello sparo che travalica lo schermo, quella corsa forsennata di chissà chi, la pioggia maledetta che taglia l’aria con le atmosfere elegiache di Nuovo cinema Paradiso? C’azzeccano, c’azzeccano. L’altra faccia dell’universo tornatoriano è rappresentata da questo tipo di cinema, più cupo, ermetico, sinistro. È un incubo notturno ambientato in un luogo quasi senza tempo (gli orologi senza lancette di bergmaniana memoria), in cui le penne si rifiutano beffardamente di scrivere, privo di un suo recapito fisico, sospeso tra realtà e falsità, delirio e giudizio. Perso in non si capisce bene quale zona del mondo, il commissariato nel quale si svolge l’intero racconto è un luogo concreto della mente, inabissato in un’aurea metafisica che manipola il reale a suo piacimento, creando nella spettatore una spettrale illusione che tutto ciò che vede corrisponda ad un tormento infernale.

 

Immerso in un buio pesta che ne accentua il lato buio e tenebroso dell’opera, gioca con raffinata persuasione nei territori foschi dell’ambiguità: niente è come sembra, ogni cosa è un oggetto del falso che si fa materia per seminare dubbi a destra e a manca. È il film più cerebrale di Peppuccio Tornatore, che affronta con radicalità diversi temi esistenziali, dal rapporto con i propri miti (il commissario ha una venerazione per il sospettato, scrittore di successo sull’orlo della depressione) all’analisi sull’identità (Onoff, lo scrittore, è perduto in sé stesso perché non ha ancora fatto i conti con la propria coscienza), dalla complementarità dei personaggi (Onoff rappresenta l’intelletto che non si piega alle realtà oggettive perché troppo affondato nel suo mondo soggettivo; il commissario, dal suo canto, è l’espressione di un’oggettività scientifica che gli proviene dal lavoro che conduce) alla enigmaticità della messinscena (fosse solo un esercizio di stile, puranche spiazzante, con il solo obiettivo di confondere la mente dello spettatore?).

 

Insomma, un film sottovalutato e sorprendente di immediata presa – merito dell’allestimento incalzante e coinvolgente – che si affida (o si abbandona?) alle recitazioni dei due mostri sacri in campo, lo scostante e smarrito Gérard Depardieu (con la voce potente di Corrado Pani) e il razionale e calcolato Roman Polanski (doppiato da un fedelissimo di Tornatore, Leo Gullotta – già commissario ne Il camorrista), affiancati da uno stuolo di caratteristi capitanato dal mirabile Sergio Rubini e popolato da due habitué del cinema tornatoriano, Nicola Di Pinto e Tano Cimarosa – che quasi stanno lì, assieme alla voce di Gullotta per meglio identificare l’opera e quasi al fine di offrire un appiglio a Tornatore per raccordarsi all’altra faccia del suo universo, più poetico e malinconico. Ennio Morricone, altro collaboratore abituale del regista, conferisce al film un tocco ancora più pauroso e minaccioso.

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