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Ultimo tango a Zagarol

Regia di Nando Cicero vedi scheda film

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La recensione su Ultimo tango a Zagarol

di MarioC
7 stelle

In mirabile equilibrio tra satira, parodia e pedissequa adesione all’originale, Ultimo tango a Zagarol è l’inclassificabile prodotto di un modo di fare cinema che prende in giro il cinema e dunque se stesso, conservando un certo fondamentale rispetto verso gli spettatori. Un po’ palinodia, un po’ partenogenesi di un capolavoro maledetto, l’ultimo tango in salsa romanesca (laddove in realtà l’ambientazione è mero pretesto non cosmopolita e non metropolitano, tra l’infuriare dei più svariati dialetti e gli interni chiusi, asfissianti, cupi che invece ricalcano senza tradirli gli originali bertolucciani) è soprattutto atto di rispetto del maledettismo ma anche sua aerea e leggera demistificazione. Il tango parigino odorava di morte e disfacimento? Quello di Zagarol ne sottolinea la costante presenza nella maschera smagrita e smagata di un pupo siciliano destinato per censo, nascita e destino alla sofferenza. Bertolucci poneva in risalto i bisogni primari dell’individuo, il sesso sopra ogni cosa? Cicero fa del sesso l’irraggiungibile miraggio dei loosers, secondo in una scala dei valori/bisogni alla fame, anch’essa totem lontano ed inarrivabile (mirabile sintesi: l’istinto del sesso che si sublima in quello, ben più pressante e vitale, della fame. La scena del burro, allora. Rivoltata, impiattata su letto di nonsense. Il burro è companatico, pane al pane, burro al burro, spalmiamolo sulla sua superficie di elezione, qualcosa di importante e di primario – l’appetito – ne verrà comunque soddisfatto). L’originale prendeva un sex symbol e tentava inutilmente di imbruttirlo, sporcandone l’eleganza, rendendolo praticamente muto, facendone un senza arte né parte, capace soltanto di aprire la patta e rivendicare così il proprio essere al mondo (benché poi bastasse un semplice, liso cappotto di cammello ad aprire nuovi orizzonti al mito Brando, a farsi brand, seconda pelle, opzione di seduzione immediatamente riconoscibile e replicabile)? La parodia/satira/riproduzione mette al centro della scena un bruttino stagionato, le sue mosse, la mimica facciale da clown senza più serate, gli fa indossare un cappotto dello stesso colore, gli consente di mostrare imperterrito il deretano (!), lo trasforma in pupazzo sempreinpiedi capace di resistere ad ogni forma di angheria fisica e verbale e ne fa così una sorta di straniante oggetto a suo modo sensuale (Franco Franchi che dice boutade con il tono serioso alla Brando: un corto circuito davvero sensazionale), affiancandolo ad una donna-donna che domina, conduce il gioco, come a Parigi. È lei che porta i pantaloni, a Franchi non resta che quello stupido cappotto ed il cercare cose che non avrà (sia poi detto per inciso, e absit iniuria verbis: Martine Beswick, rispetto alla imbronciata Maria Schneider, ha una carica erotica ancor più prepotente).

 

 

Tutto in Ultimo tango a Zagarol è specchio che deforma ma anche riflette, è consapevole spasso e malinconico cazzeggio, è a suo modo un omaggio alla poesia senza rime o svolazzi di Bertolucci, a quell’inferno in terra che il regista parmigiano sapeva tratteggiare con uno sguardo, un improvviso scarto di espressione, l’esplosione inconsulta e catastrofica delle passioni. Ma è anche un film totalmente a sé stante, un hellzapoppin su canovaccio già pronto, che si mantiene miracolosamente sul filo del ridicolo senza mai veramente sfiorarlo. Vulgata vuole che Bertolucci fosse segretamente ammirato, se non invidioso, di quella parodia caciarona: forse perché cosciente che il suo canto di dolore su un’umanità allo sbando e priva di riferimenti conteneva i germi di una possibile (e verosimile quando non veritiera) rilettura in salsa comica. Come ogni istanza della vita, in fondo: tragedia e, altra faccia della medaglia, farsa, sogni e bisogni, realtà e sua adulterazione onirica, aspettative e loro frustrazioni (cosa cazzo ci sarà lì dentro? si chiede Franchi, brandeggiando convinto. Ci sarà qualcosa che può scatenare isteria e riso in chi di quell’isteria è indotto a cogliere il lato ridicolo). Servito da scelte di casting quasi mirabolanti (detto di Franchi, mai così consapevolmente e orgogliosamente guitto, e della Beswick, menzione d’onore per Franca Valeri regista sadica, forse Bertolucci in gonnella, e Nicola Arigliano gigione da par suo. E poi, en passant, un incredibile Jimmy il Fenomeno nelle più che inconsuete vesti di puttaniere) Ultimo tango a Zagarol è film sbrindellato e rapsodico, nascostamente pretenzioso e scopertamente giocoso. Un meccanismo di perversioni da commedia pecoreccia e tuttavia in grado di ricevere un attestato di nobiltà dal dichiarato modello di riferimento. Dunque vertiginoso, nel suo genere. Si può soffrire fino a piangere (a Parigi), si può ridere fino alle lacrime (a Zagarol). E con la medesima trama.

 

 

 

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