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La tigre venuta dal fiume Kwai

Regia di Franco Lattanzi vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su La tigre venuta dal fiume Kwai

di moonlightrosso
1 stelle

Cinema bis (o meglio ter o anche quater)...

Nella mia personalissima "rechèrche" sul cinema bis (in questo caso oserei dire anche ter o quater) non potevo non imbattermi nell'opera di codesto misterioso cineasta sul quale si rinvengono pochissime notizie anche da parte delle più specialistiche rivistelle del settore. Nato nel 1925 e scomparso nel 2008 nella comprensibile indifferenza generale, dopo aver diretto negli anni cinquanta e sessanta alcune pellicole rimaste ultrasconosciute come "Trocadero" e "Serenata d'amore", venne ingaggiato nel decennio successivo per girare alcuni westerns laziali che costituirono il canto del cigno di uno dei momenti più gloriosi ed economicamente più proficui della nostra cinematografia. Nel disperato tentativo di rinvigorire un genere morente, il film in esame si inserisce nel sottofilone del c.d. "western in salsa di soja" curiosa commistione tra il western "tout court" e il "gong-fu movie", commistione che trovava una sua giustificazione storica nel fenomeno dell'immigrazione cinese di massa nell'America di fine Ottocento. Pur rimanendo nell'alveo dell'intrattenimento parossistico, alcuni di questi prodotti avevano raggiunto risultati discretamente apprezzabili grazie a maestri del nostro cinema popolare quali Antonio Margheriti e Mario Caiano. In tale contesto e analogamente ai coevi films orientali, ecco che il protagonista, uso alle arti marziali e non alla pistola, si riaffermava come il giustiziere tutto d'un pezzo ora incaricato di portare a termine improbabili missioni, ora in veste di paladino a difesa dei deboli e della legalità.

La vicenda di questo film verte su un cofanetto di preziosi appartenuto a tale Smith, un americano morto in Thailandia. Un thailandese suo amico (la "Tigre" del titolo) si incarica quindi di restituire il cofanetto ai familiari dello scomparso, comunicando altresì l'avvenuto decesso del loro caro. Il motivo per il quale l'americano si trovasse in terra d'Oriente e quali furono le reali cause della sua morte sono domande alle quali colui che mi piace definire come "il malcapitato spettatore" non può e non deve dare risposta. Dopo essere stato avvertito dal monaco buddista di turno di come l'America sia lontana (ma va?) e irta di pericoli, viene da questo autorizzato a partire e benedetto con un serafico "Vai e che Buddah ti protegga!" (sic!), un po' alla maniera del "Che San Gennaro t'accumpagni". Catapultato nella campagna ciociara a fungere da vecchio west a basso costo, la nostra Tigre dovrà fare i conti con una banda di pericolosi criminali, capeggiati dall'immancabile e incontrastato re della nostrana serie Z Gordon Mitchell, anch'essi a caccia dei gioielli e colpevoli dello sterminio dell'intera famiglia Smith. Fortunatamente, grazie all'aiuto di un amico orientale, anch'egli esperto di arti marziali e titolare di un ristorante cinese (c'erano anche nel West??), il thailandese riuscirà a sconfiggere la banditaglia e a consegnare i preziosi alla sorellina dell'amico scomparso miracolosamente sopravvissuta alla strage.

Con la complicità di una sceneggiatura piena di buchi peggio di un gruviera, il Lattanzi, dall'alto (o meglio dal basso) di un'incapacità e di un dilettantismo senza pari, ci immerge nel suo universo filmico dove lo squallore, il pauperismo e la sciatteria raggiungono livelli difficilmente immaginabili. A comprova di tutto ciò si richiamano dialoghi che sembrano usciti dalla penna di un demente; oltre all'anomala benedizione del monaco buddista, svettano battute del calibro di "Da dove viene questo thaliandese?" "Dalla Thailandia!". A ciò aggiungiamo: miserabili figuranti degni dei sets di Vito Colomba (ricordate lo strampalato personaggio che ci deliziava con le sue indimenticabili lezioni di cinema nell'altrettanto indimenticabile trasmissione televisiva "Mai Dire TV"?); esterni notte che diventano improvvisamente e inspiegabilmente esterni giorno e viceversa; montaggio con raccordi temporali visibilmente sbagliati; situazioni di imbarazzante infantilismo tra cui enumeriamo: il vicesceriffo autoconfessatosi "cervello della banda"; i due criminali che per attirare l'attenzione dello sceriffo fingono una rissa sparandosi a vicenda sui piedi a distanza ultraravvicinata senza mai colpirsi come nel cinema muto, a citazione ultrainvolontaria di "The great train robbery" (1903); il ristoratore cinese che, pensando di far ridere, comunica con il suo asino alla maniera di "Francis il Mulo Parlante" (solo che qui il mulo non parla ma si limita a fare cenni col capo); la sorellina di Smith magicamente resuscitata nel rabberciato finale, nonostante sia stata falciata con una raffica di mitra alla schiena nel corso del massacro della sua famiglia; l'affidamento dei preziosi a un fantomatico zio della ragazzina spuntato da non si sa dove, perchè in grado di amministrarli saggiamente (chi lo dice?), il tutto comunque in omaggio a un didascalismo da terza elementare.

In un panorama attoriale di carneadi in cui gli unici nomi noti sono quelli del succitato Mitchell e del corpulento caratterista George Eastman (all'anagrafe Luigi Montefiori), che sacrifica la sua faccia da villain psicopatico per un poco credibile ruolo di sceriffo, merita una menzione la procace Nuccia Cardinali, nelle vesti di una prostituta che si prende amorevoli cure (in tutti i sensi) della nostra Tigre ferita da un colpo d'arma da fuoco. Già cantantina di terz'ordine (siamo ai livelli di Giuliana Cecchini) e stellina assai gettonata dai fotoromanzi delle mitiche "Edizioni Lancio", rende subito inequivoco il suo ruolo meretricio con soluzioni che ampiamente travalicano ogni limite del trash. A tal riguardo non possiamo dimenticare il congedo di un affezionato cliente invitandolo a tornare quando desideri purchè si lavi (sic!) e le attenzioni riservate, piuttosto che alle ferite, al "membro" del nostro protagonista.

In questa quintessenza del brutto non si può non riservare un posto d'onore anche alla colonna sonora (opera di Alberto Baldan Bembo) completamente avulsa dal contesto del film, con la sola eccezione dei brani ridicolmente orientaleggianti atti a sottolineare le gags penose del ristoratore cinese. Se il grande Burt Bacharach con la sua musica straniante e solo in apparenza inappropriata, rendeva Butch Cassidy esperimento originale e indimenticabile, la colonna sonora del Baldan Bembo consegue qui il diverso e ben più deprimente effetto di elevare l'insieme alle più alte vette di cialtroneria che mente cinematografica conosca.

In definitiva, "La tigre venuta dal fiume Kwai" sembra sia stato uno di quei fondi di magazzino proiettati nei fumosi cinemini di periferia e strombazzati come "prima visione assoluta" ma che in realtà servivano a riempire ora le programmazioni estive, ora i vuoti tra un titolo e l'altro appena smontati dagli schermi delle visioni superiori.

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