Regia di Sydney Pollack vedi scheda film
La vita è una gara di ballo che non conosce sosta. È una maratona danzante inarrestabile.
Massacrante, spietata, disumana.
Alterna momenti lenti a ritmi indiavolati per lanciarsi, poi, in lunghe accelerazioni al cardiopalma
dove è necessario mantenere il passo,
dove è imperativo non fermarsi,
dove è vitale rimanere in piedi.
Se nella corsa a girare in tondo per tenersi stretto il posto sulla pista da ballo si cade rovinosamente,
è fondamentale rialzarsi, e pure alla svelta. E continuare a correre.
Pegno da pagare: la squalifica immediata.
E veder sfumare tra le mani la possibilità di riscattarsi da un’esistenza di stenti, fatta di fame e privazioni,
dove è la rabbia che cresce come un cancro a tenere in vita sostituendosi a lauti pasti,
dove è la disperazione più nera il perfetto carburante per mettere in moto il corpo.
Piegarlo alle infami regole della sopravvivenza.
Renderlo agile scattante per lo spettacolo crudele che il destino gli ha imposto di interpretare.
Un momento di debolezza e si firma la propria condanna a morte.
L’ultimo di una serie infinita di fallimenti.
L’infernale tour de force a suon di musica rigorosamente dal vivo non conosce battute d’arresto.
Cinico e inesorabile si fonda sul principio darwiniano della selezione naturale: i deboli vengono eliminati in fretta,
i più forti restano in ballo, a contendersi lo scettro (in finto oro massiccio) della (possibilità di) sopravvivenza.
Un filo più dignitosa.
Ininterrottamente si balla chiusi in un capannone, a pochi metri dal mare della libertà.
Così vicino e pure così lontano, inaccessibile.
Un miraggio nel soffocante deserto della sussistenza e dello squallido compromesso.
Mentre fuori, il giorno cede il posto alla notte e la notte al giorno.
Per un tempo che pare non avere mai fine.
Sono previste brevi pause allo scopo di rifocillare le membra gonfie e doloranti,
ripulirsi dal sudore della corsa,
chiudere gli occhi, ma giusto un istante.
Conviene riaprirli in fretta.
E rituffarsi nella mischia.
Continuare a oscillare e non arrestare mai l’andamento. Come canne al vento.
Nemmeno quando si ingurgita qualcosa di dubbia commestibilità per mantenersi appena vivaci.
E intanto, quel sottile sorriso colmo di (ben celate) aspettative cede definitivamente il posto ad una smorfia amara,
gli occhi raggianti si cerchiano del nero della fatica e il loro naturale scintillìo si spegne.
Un velo di morte cala su di essi.
I capelli ben curati e pettinati degli inizi si arruffano, si fanno ribelli, si muovono selvaggi,
a incorniciare un viso sempre più sciupato, pallido, provato.
Ma la danza macabra continua,
lasciando dietro di sé una scia sempre più consistente di caduti sul campo.
Perché il cuore ha esaurito i suoi battiti, perché la mente ha scoperchiato le sue voragini.
Ballano, gli improvvisati ballerini ballano e non vogliono fermarsi.
Non sono ancora sazi di sperare.
Umanità disgraziata, indurita e dolente, messa in ginocchio dalla miseria generata dalla guerra.
È la Grande Depressione, ma può essere anche il nostro presente.
Non c’è poi tanta differenza.
Cambiano le mode ma la sostanza resta la stessa.
Ieri le gare di ballo, oggi i quiz e i reality show televisivi.
C’è sempre qualcuno che paga il biglietto e qualcun altro che si esibisce.
In scena la tragicità della vita e pure il suo lato grottesco.
Il premio finale? Una beffa, una promessa (intenzionalmente) mancata.
L’unica via d’uscita?
Il camposanto o la galera.
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