Regia di Orson Welles vedi scheda film
Considero i primi minuti l’incipit più trascinante nella storia del cinema: una voce emerge dal buio a rievocare il passato (“Lo splendore degli Amberson ebbe inizio nel 1873 e durò per tutti quegli anni durante i quali il loro paese crebbe e si sviluppò trasformandosi in una grande città”); un uomo si prepara a uscire di casa, e attraverso la sua vestizione possiamo seguire i mutamenti di costume di un’intera società (cilindro e scarpe diventano di foggia sempre più piccola, assecondando il passaggio di consegne fra aristocrazia e borghesia). Un progetto di matrimonio naufraga per uno stupido puntiglio, nonostante Joseph Cotten e Dolores Costello siano reciprocamente innamorati; ma lei è di famiglia ricca, mentre lui è solo un giovane di belle speranze. Poi arriva la nuova generazione, rappresentata da Tim Holt e Anne Baxter: le premesse sembrano incoraggianti, ma la storia si ripete tristemente, e sempre per colpa dell’orgoglio (il titolo italiano coglie nel segno). Un principino viziato, strumento dei patetici intrighi di una zitella, decide che il matrimonio non s’ha da fare neanche adesso: come anni prima, la porta rimane chiusa davanti al pretendente che ha osato mettere gli occhi su una Amberson. Se Amleto questa volta gioca d’anticipo, Ofelia non impazzisce: si limita a raccontare la leggenda degli indiani che abitavano la collina il cui nome significa “Dovevano farlo”, e che hanno cacciato il loro malvagio capo ma non sono stati capaci di sostituirlo. Intanto là fuori il mondo sta cambiando: i clan dei possidenti, arroccati in difesa dei loro privilegi e convinti che non cambierà mai nulla, vanno in rovina e vengono soppiantati dall’ingegno e dall’operosità delle classi emergenti; il rampollo se ne accorge solo quando è troppo tardi, nell’ultima passeggiata verso la propria ex casa messa in vendita, guardando le vie della città come se non le avesse mai viste prima. Tutto è perfetto fino alle ultime scene: oggi è impossibile valutare i guasti prodotti dal montaggio imposto dalla produzione e realizzato da Robert Wise; si può solo dire che il finale è frettoloso e consolatorio, ma che non riesce a deturpare un’opera memorabile.
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