Regia di Roman Polanski vedi scheda film
Roman Polanski prende in prestito dal primo Bergman gli scenari semideserti ed alieni, che sembrano palchi teatrali in disarmo, attraversati da attori errabondi e cosparsi di residui di esistenze. Il vuoto, però, è qui popolato di realismo ed ironia: gli spazi ampi e disadorni fanno da cassa di risonanza ai caratteri stravaganti, alle individualità che rivaleggiano, contendendosi ferocemente il ruolo da protagonista. A brillare, sullo sfondo dello squallore, sono la finta vivacità della follia e l’illusoria ricchezza del disordine, che diventano ingombranti, abnormi manifestazioni di una vita che lotta per non spegnersi e per darsi un senso. L’estetica della disperazione è il sinistro fuoco d’artificio che esplode quando tutto sembra perduto, compreso il velo dell’ipocrisia: il contatto con il criminale, l’intruso, l’anomalia infrange, infatti, la fragile corazza dell’uomo perbene spingendolo inesorabilmente verso la deriva morale e psicologica. La crisi, scatenata dall’incapacità di scendere a patti con l’incarnazione delle proprie paure, diventa così la porta dell’assurdo. La sua inquietante contiguità con la normalità è il leitmotiv delle opere di questo autore: l’enigma che sta alla base dei suoi thriller è il misterioso passaggio dalla luce al buio, dalla certezza al dubbio, dalla serenità al terrore. La domanda centrale non riguarda, come nei gialli tradizionali, l’identità dei colpevoli o le circostanze di un delitto, bensì la dinamica di un’improvvisa deviazione dalla strada maestra, che trasforma una persona, suo malgrado, nel ritratto sfrangiato, ribelle, trasgressivo di se stesso, pur non modificandone, nel profondo, la coscienza etica. A questa si sovrappone un’intraprendenza dissonante e incontrollabile, tipica di chi è costretto a muoversi in un ambiente ostile, in balìa di eventi inopinati e incomprensibili e sotto una minaccia costante e sconosciuta. In Cul-de-sac il gusto dell’incoerenza, del travestimento, del caso introduce quell’effetto “frullatore” che l’imprevisto produce nella quotidianità, disgregando la logica e scardinando i rapporti umani, e spostando tutta l’attenzione verso un’attesa indefinita, che è insieme timore e speranza. Il fantomatico Katelbach, che il protagonista aspetterà invano, ricorda tanto il Godot di Beckett e, come lui, rimane sfuggente ed invisibile, gettando da lontano lo scompiglio, per poi lasciare il discorso eternamente aperto.
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