Regia di Fraser C. Heston vedi scheda film
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La riduzione cinematografica del corposo omonimo romanzo del 1991 di Stephen King è caratterizzata da un’ovvio taglio dei personaggi coinvolti: tali e tanti erano infatti i cittadini di Castle Rock interessati dalle trame del diabolico Leland Gaunt che difficilmente, a memoria, riuscirei a ricordarli tutti (nonostante una ri-lettura di qualche mese fa). Gli incastri e le interazioni tra questi ultimi erano talmente perfettamente resi sulle pagine scritte dallo scrittore del Maine, ispiratissimo per costruzione drammatica, da scoraggiare una resa cinematografica senz’altro difficoltosa, se non impossibile.
Lo sceneggiatore W.D Richter (“Brubaker” di Rosenberg, “Grosso Guaio a Chinatown” di Carpenter etc) ed il regista Fraser Clarke Heston (figlio di Charlton) hanno compiuto, saggiamente, la scelta più giusta e condivisibile. Quindi, oltre a semplificare il plot, hanno deciso di affidarsi per i ruoli principali ad una navigata coppia d’attori: Ed Harris (lo sceriffo Alan Pangborn) e il grande Max von Sydow nei panni del mellifluo ed onnisciente gestore del negozio “Cose Preziose”. Quest’ultimo, in particolare, rappresenta il vero valore aggiunto della pellicola: impeccabile, dalla recitazione secca e misurata, aderisce infatti perfettamente al personaggio dell’inquietante e luciferino burattinaio immaginato da King.
Il resto del cast di contorno è parimenti di buon livello: Amanda Plummer, J.T. Walsh, Bonnie Bedella (la “moglie” di John McLane !) e Ray McKinnon (il reverendo Potter in “Deadwood”).
Su queste basi il film risulta abbastanza omogeneo nella sua resa, che però resta palesemente para-televisiva, nonostante sia stato invece distribuito nelle sale. Natura intrinseca forse dovuta alla mancanza di un’idea registica forte: l’inesperienza dietro la macchina da presa di Heston, che riprende scolasticamente gli ambienti e gli attori (con la sola eccezione del buon ritmo dei titoli di testa e della resa dei flashback “onirici”) con pochi guizzi degni di nota; si rimane quindi a metà del guado, non si sfrutta appieno la “forza” dell’ispirata fonte scegliendo di depotenziarne la portata horror (seppur non manchi qualche momento truce) e gli elementi più scabrosi (nel libro, la signora “adoratrice” di Elvis Presley) e si lascia più spazio alla meccanica sovrapposizione degli eventi.
Elementi che partoriscono comunque un discreto thriller horrorifico, paradossalmente dal finale più compatto (ma leggermente retorico) rispetto al libro (che invece chiude in maniera incomprensibile, per la totale mancanza di appigli col pregresso del racconto) che si lascia tranquillamente vedere, senza particolari sottotesti (le fisse di King: la violenza e l’orrore “rurale”, una blanda critica al consumismo che ruba l’anima, le difficoltà di convivenza), ma piacevolmente e senza tormenti.
P.S. Meglio tenere d’occhio le prossime aperture di negozietti di curiosità nelle vostre città: io lo faccio dal 1991.
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