Regia di Jacques Demy vedi scheda film
Lola – Donna di vita, è la pellicola con cui Demy ha debuttato (clamorosamente, almeno dal mio punto di vista) nel cinema a soggetto (dopo una serie di documentari coi quali aveva fatto un’ottima gavetta e l’interessante “corto” Le bel indifférent, trasposizione in immagini dell’omonimo atto unico di Cocteau[1]).
Correva l’anno 1961 ed era un momento molto particolare quello che stava attraversando la cinematografia francese stretta fra innovazione e difesa della tradizione. Fra l’altro, la corrente della Nouvelle Vague esplosa violentemente sul finire dei ’50 (feconda responsabile di questo scompiglio) si stava seriamente interrogando sul suo futuro nonostante che i primi bilanci fossero per lei più che positivi, perché era ancora troppo osteggiata dall’ottusità di un sistema produttivo che intendeva difendere se stesso oltre che il conformismo della messa in scena e cercava di conseguenza di opporre una strenua resistenza al vento impetuoso della novità che lo stava minacciando sempre più da vicino. Mai come in quegli anni infatti, furono tenuti al palo privandoli dei finanziamenti necessari per la loro realizzazione, molti progetti presentati dalle nuove leve- soprattutto opere prime -ai quali non fu mai concesso di svilupparsi e di vedere la luce. I sostenitori del rinnovamento (in gran parte ex critici dei Cahiers du Cinéma cominciavano forse a dubitare che il loro impegno potesse essere a questo punto sufficiente per riuscire a svecchiare davvero e fino in fondo l’accademismo ingessato di certe produzioni mainstream che continuavano ad uscire (e deludere) anche se realizzate dai prestigiosi registi blasonati che avevano dominato il panorama cinematografico della nazione nelle stagioni precedenti (il cosiddetto cinema dei padri). Si avvertiva insomma in giro un’aria di (momentaneo) scoraggiamento (indubbiamente più apparente che reale perché molti dei grandi capolavori della corrente si concretizzeranno proprio in quel periodo e negli anni immediatamente successivi[2]), dovuto forse al fatto che si stava assistendo a preoccupanti segni di precoce esaurimento di certe tematiche (prima fra tutte, quella della “ ricerca del tempo perduto” alla Marguerite Duras, alla quale aveva assestato un serio colpo la stessa scrittrice con L’inverno ti farà tornare di Henri Colpiche già portava i preoccupanti segni di “manierismo”) che avevano contribuito a dare una forte spinta al riconoscimento internazionale del valore di questo nuovo modo di fare cinema. Il bisogno di nuova linfa era dunque fortissimo anche perché altri nomi importanti della prima ora cominciavano a deragliare un poco e gli svolazzi gelidamente raffinati alla Astruc o alla Doniol-Valcrose stavano lasciando campo libero al formalismo più delirante ed esasperato (sostanzialmente inutile) di Jean-Gabriel Albicocco (tanto per fare un esempio concreto) che si manifesterà in tutta la sua pericolosa inconsistenza già nella sua opera d’esordio - La ragazza dagli occhi d’oro - e che diventerà insopportabile in quelle successive).
Si può dire allora che Demy arrivò al momento giusto e che l’approdo sugli schermi della sua Lola (che comunque a suo modo, è ancora indiscutibilmente Nouvelle Vague) fu provvidenziale per vivificare un poco il panorama cinematografico dei nostri amici d’oltralpe che sembrava stesse diventando nel suo complesso leggermente più anemico del solito (anche se poi il tempo ha dimostrato che non stavano proprio così le cose). Sta di fatto che una buona parte della critica francese l’accolse - e a mio avviso molto giustamente - con grande favore. L’Italia come al solito, si distinse invece in negativo mostrandosi meno disponibile a riconoscere l’originalità anche strutturale che il film conteneva (quell’alone di piccolo cult-movie se l’è infatti guadagnato alla distanza perchè da noi Demy è stato sempre molto sottovalutato e solo raramente e quasi sempre a posteriori, gli è stato riconosciuto in pieno il suo valore). In qualunque modo la si pensi, Lola è comunque un film così particolare che può essere amato (da molti) o detestato (da qualcuno) ma che è impossibile ignorare perché il guardarlo non può lasciare indifferenti (nemmeno quelli che lo giudicano girando il pollice verso il basso).
La pellicola non è certo esente da qualche piccolo difetto, ma si deve però considerare che in un’opera prima come questa, le eventuali imperfezioni che ci si possono trovare dentro sono accettabilissimi peccati di generosità che non inficiano minimamente il risultato finale perché Lola è un film già pienamente compiuto (e solo leggermente perfettibile) che con le sue avvolgenti, magiche suggestioni (anche visive) anticipa di qualche anno preannunciandone l’arrivo, i capolavori successivi del regista (Les parapluies de Cherbourg del1964e Josephine – la ragazza dei miei sogni conosciuto soprattutto come Les demoiselles de Rochefort che è poi il titolo originale, girato nel 1966) non solo nelle intenzioni di creare un’ambientazione fiabesca nella banale realtà di un porto sull’Atlantico (la natia Nantes) ma anche nell’uso della musica e della danza. Questi due elementi, sebbene non ancora preponderanti come nelle due pellicole successive (ma solo a causa dei finanziamenti insufficienti che non consentirono al regista di farne un vero e proprio musical) definiscono i personaggi e il clima del film fin dall’inizio (l’arrivo di una misteriosa Cadillac accompagnato da musiche di Beethoven e dal jazz di Michel Legrand) e sono la chiave di volta di una storia davvero difficile da raccontare solo con le parole[3] (soggetto e sceneggiatura dello stesso Demy) perché si tratta di un’opera intessuta di rime, rimandi e coincidenze, che rendono subito evidente come il regista abbia inteso fotografare cinematograficamente parlando, un racconto - una storia qualsiasi, con un capo ed una coda e persino un lieto fine – prescindendo da una componente essenziale: quella del tempo (sostituito da dilatazioni e rifrazioni nello spazio). Ne è uscito fuori un film che – davvero – non assomiglia a nessun altro e che potremmo definire un intrigante gioco di specchi dove le vicende, e soprattutto i personaggi, sono prima riverberati e poi scomposti (e ricomposti) secondo leggi già ampiamente sfruttate nelle arti figurative, nella musica e nella narrativa del secolo scorso ma in un certo senso ancora nuove (nonostante il Resnais di Hiroshima e Marienbad) per il cinema degli anni ‘60. Ed è dunque in questo gioco di proiezioni che ci viene mostrato il “donde” e il “dove” della protagonista della pellicola. (Guidi Fink)
Negare il tempo (come Demy prova a fare con questa pellicola) coniugando tutto al presente senza alcuna soluzione di continuità anche il passato e un ipotetico, preannunciato futuro, non significa soltanto allontanarsi da Marguerite Duras e Resnais (qui infatti si modifica la storia lineare della vita e della memoria per trasformarla in qualcosa di altro, ed è questa la grande differenza). Diventa infatti soprattutto un coraggioso tentativo di generare una profonda (insanabile?) frattura con Proust e Bergson[4] oltre che con tutta una tradizione ormai codificata, al fine di trovare una nuova, inedita (e personalissima) maniera di rappresentare la poetica del ricordo, e in questo senso, Lola (il personaggio e il film)rifiuta ogni riferimento totalmente realistico non solo rispetto alla propria vicenda, ma anche a tutte le figure che la circondano per proiettarsi così in assoluta e totale libertà, in un mondo astratto e atemporale che è un po’ surreale solo in apparenza poichè contiene un fondo di assoluta verità e dove le combinazioni e le conseguenze del caso hanno una importanza tutt’altro che secondaria, come succede appunto nell’esistenza di ciascuno di noi.
E’ quindi in una Nantes in apparenza metafisica davvero a metà strada fra il dato realistico e il suggerimento fantastico (magnifica la fotografia di Raoul Coutard che con le sue riprese sovraesposte ci regala una serie di intelligenti soluzioni visive davvero di straordinaria rilevanza che contribuiranno a fare di lui il più conteso – insieme a Henri Decaë – fra i fotografi della Nouvelle Vague) dove i personaggi si rincorrono vorticosamente ma solo in pochi riescono alla fine a ritrovarsi (Michel e Lola) dentro a un percorso che il regista decide di far virare verso l’happy end ma che avrebbe potuto concludersi benissimo anche in tragedia, sospeso com’è fra commedia e dramma (e non è dunque un caso che il lieto fine da melodramma che conclude le due febbrili, frenetiche giornate di Lola, sia punteggiato dal coro vagamente brechtiano delle entraîneuses sue colleghe.
Devo dedicare a questo punto due righe anche a Roland, il sognatore malinconico che cambia continenti e mestieri che ha amato Lola quando era ancora Cécile, l’unico che si sottrae al ritmo funambolico in cui vivono le tre Lole e i due Michel (il cui atteggiamento distaccato e deluso suggerisce una sorta di rassegnata, devota impotenza) e che viene qui magistralmente utilizzato per “legare” fra loro le diverse fila della vicenda dentro a questa storia delicata e rarefatta che proprio dalla sua convenzionalità (del racconto non della messa in scena) ricava la sua inconsueta forza.
E’ nel contrasto fra i vari caratteri, nel loro affanno nel rincorrersi senza ritrovarsi o raggiungersi, che sta forse la vera chiave del film (e la recitazione, assai ben guidata, riesce a sottolineare perfettamente tale aspetto). Marc Michel per esempio (lo ricorderete certamente come “ il povero Gaspard” ne Il buco di Beker e lo potremo ritrovare poi persino con lo stesso nome, anche ne Les parapluies de Cherbourg) qui recita giustamente in una dimensione quasi astratta e disegna così magistralmente una figura che pur partecipando attivamente all’azione, è come se intendesse osservare il tutto dall’esterno con il suo sguardo melanconico e volutamente assente che è poi quello di un uomo remissivo e rinunciatario (caratteristica primaria del perdente) che è conscio già in partenza di non avere alcuna possibilità di uscire vittorioso.
Ma il vero punto di forza del film è la straordinaria prova (davvero indimenticabile) offerta da Anouk Aimée (bizzarramente ed efficacemente rimodellata a metà strada fra Marilyn Monroe e Marlene Dietrich) con la sua presenza palpabile e impalpabile allo stesso tempo, che stenta a decidersi fra i vari pretendenti in attesa del ritorno del suo vero amore, e che si è tuffata con ingenuo ottimismo in quel calderone informe e caotico che è la vita ricevendone molte bruciature e qualche (piccolissima) gratificazione. L’Aimée e la sua Lola, incarnano dunque “l’énorme espoir insensé” di cui parla la canzone di Agnès Varda (moglie del regista) che la ballerina sta provando nel night club in cui lavora.: “On va tourner, on va danser; on va flirter sans y penser….Celle qui rit à tout propos, celle qui dit l’amour c’est beau, celle qui plait sans plaisanter, celle qui rit de tout cela, c’est moi, Lola”.
Sarebbe dunque ingiusto (come invece fece qualcuno al momento della sua distribuzione in sala), liquidare come banale il mondo romantico che avvolge questa enigmatica, attraente ragazza-madre che si mantiene facendo la ballerina in un locale del porto (e che all’occorrenza si prostituisce per poter sbarcare il lunario). Qui infatti c’è molto di più (e di più profondo) del clima sostanzialmente allegro che avvolge l’intera vicenda con le sue melodie vivaci e le sue improbabili coincidenze, poichè Il film è permeato da una pungente consapevolezza non solo dell’improbabilità, ma anche delle difficoltà dell’amore che determinano sempre (o quasi) la transitorietà della felicità.
Anche dal punto di vista formale, il film è più complesso di quanto sembri in apparenza (a partire dalla suggestiva circolarità della fotografia a cui ho accennato prima) con molti dei personaggi minori perfettamente messi a fuoco, che presentano convincenti e interessanti variazioni sul tema della coppia principale.
C'est moi
C'est Lola
celle qui rit
A tout propos
Celle qui dit
L'amour c'est beau
Celle qui plaît sans plaisanter
Reçoit sans les dédommager
Les hommages des hommes âgés
Et les bravos des braves gars
Les hurrahs, les viens avec moi,
Celle qui rit de tout cela
C'est moi qui veux plaire et s'en tenir là
C'est moi Lola.
Celle qui dit
V'là un bateau
V'là un samedi
V'là des matelots
On va tourner, on va danser
On va flirter sans y penser
On va rire et virevolter
Mais...mais quand elle met le holà
Quand elle leur dit : Ça va comme ça
Tiens-toi bien, moi je m'en tiens là
C'est moi
C'est moi Lola.
Celle qui dit
Bientôt, bientôt
Et qui sourit
Dans votre dos
Tout enfoncée dans ses pensées
D'espoir, si vous les connaissiez
Un énorme espoir insensé
Celle qui n'ouvrira ses bras
Qu'à celui qu'elle reconnaîtra
Entre mille, entre cent ou trois
A qui elle dira toi, toi, toi
[1] Chi volesse saperne di più su questo “corto”, può digitare il link: //www.filmtv.it/film/44995/le-bel-indifferent/recensioni/541745/#rfr:film-44995
[2] Solo pensando a due dei capiscuola più importanti della Nouvelle Vague (Godard e Truffaut) si può rilevare infatti che: per il primo, il periodo più fecondo sarà proprio il decennio dei sessanta, che va da A bout de souffle (1960)a Week End – una donna e un uomo da sabato a domenica (1967) e che Truffaut, l’osannato autore de I quattrocento colpi che nel 1959 lo aveva fatto conoscere e apprezzare in tutto il mondo, proprio nel decennio dei sessanta oltre alla saga dedicata a Antoin Doinel ha realizzato capolavori come Jules e e Jim (1962), Fahrenheit451 (1966), La sposa in nero (1967), La mia droga si chiama Julie e Il ragazzo selvaggio (entrambi del 1969), proseguendo poi ininterrottamente la sua splendida carriera di regista con tante altre opere che meritano l’attenzione del primo piano, fino alla sua prematura dipartita avvenuta il 21 ottobre del 1984.
[3] Qualcosa però si può provare a dire anche se difficilmente riuscirò a far comprendere, utilizzando solo le parole, la seducente bellezza di un film in cui Demy (ed è un’opera prima!) si prende già la libertà di citare con allegra impudenza (ma anche con assoluta riverenza), il cinema di molti mostri sacri che lo hanno preceduto. Penso in particolare a Max Ophüs (il titolo stesso è un dichiarato, innamorato riferimento al suo Lola Montez) che omaggia non solo riproducendone angolazioni di ripresa e inquadrature, ma anche nell’utilizzo delle musiche.
Qui la figura centrale intorno alla quale ruotano e convergono le fila della vicenda, è una ragazza madre che balla in un locale per marinai aspettando da sette anni il ritorno del suo primo amore che l’ha lasciata con un figlio in grembo da far crescere e mantenere (anche prostituendosi se necessario). Lui è partito per andare in Sud Africa con l’idea di far soldi promettendo di ritornare (le sue però – come vedremo - sono tutt’altro che promesse da marinaio!!).
Demy ci fa conoscere una Lola che lentamente si avvia verso la trentina ancora in fiduciosa attesa del ritorno del suo Michel, attraverso due sole giornate della sua attuale vita di entraîneuse.
La ritroveremo però – idealmente – nella quattordicenne Cécile che a sua volta si innamora di un marinaio (e questo rappresenta il suo passato, esattamente come il suo futuro è facilmente identificabile nella figura della madre della ragazza). Perché davvero, queste due presenze, madre e figlia, pur senza mai incontrare Lola, sono palesemente due sue proiezioni, e questo dualismo vale anche per i personaggi maschili, poiché di fatto anche Frankie e Michel rappresentano la stessa persona (e dove Frankie - del quale si innamora Cécile - è il Michel di sette anni prima nella finzione del racconto). Non a caso infatti risveglia in Lola una forte tenerezza che non esprime invece verso tutti gli altri frequentatori del locale in cui lavora, compresi quelli abituali e instaura subito un rapporto di complice amicizia col .figlio della donna (un po’ complicato vero? Ma lo sarà sicuramente molto meno se la storia si percepirà attraverso le eloquenti immagini del film, ve lo assicuro).
Proverò comunque ad essere più… lineare confermando che Michel è nel frattempo ritornato (del resto potremmo già averlo immaginato dalla scena d’apertura) e sta freneticamente cercando (infruttuosamente) la sua donna per tutta la città.
Nella storia si inserisce anche Roland, vecchio compagno d’infanzia di Lola/Cécile da sempre innamorato di lei. I due si incontrano di nuovo dopo molti anni e l’antico sentimento si rianima di nuovo vigore, tanto che lui propone alla donna di lasciare tutto e di partire insieme verso l’ignoto… Lola però rifiuta, proprio perché non vuole sciupare il ricordo della loro passata amicizia (ma anche perché forse in fondo al cuore...) Meglio però non aggiungere altro a questo punto, perchè mi sembra di aver creato già troppa confusione (e posso anche capirlo perché anche io cercando di trovare la stretta coerenza degli avvenimenti, ho finito per smarrirmi dentro agli intricati labirinti della vicenda). Se qualcuno vuole leggere una sinossi meno complicata della storia, vada pure su Wikipedia digitando il link https://it.wikipedia.org/wiki/Lola_-_Donna_di_vita e lì troverà sicuramente più chiarezza ma solo perché lì si racconta di fatto una sola storia ma non la complessità di un’opera davvero insolita come questa.
[4] Henry Bergson (1859 – 1941) è stato un importante filosofo francese, insignito del premio Nobel nel 1927 e autore del saggio Materia e memoria (molti elementi del suo pensiero, si ritrovano nelle opere filosofiche di Emmanuel Levinas, Gilles Deleuze, Michel Serres, nella letteratura di Marcel Proust, nella storiografia di Fernand Braudel e nell’epistemologia di Jacques Monod).
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta