Regia di Pietro Germi vedi scheda film
Agnese viene disonorata da Peppino, che però è promesso alla sorella Matilde. A casa Ascalone, nell’Agrigento degli anni ’60 pare il più grosso dramma che potesse accadere. Anche perché Peppino non spara la propria “cartuccia” a salve e soprattutto… non intende riparare!
La sfortunata del titolo è Stefania Sandrelli, come al solito più bella che brava, che in due film con Germi totalizza zero sorrisi; ma di fatto il vero protagonista è Saro Urzì, il pater familias di una affollata famiglia siciliana, mentore di tutte le sue dinamiche e soprattutto fautore dell’arzigogolata sceneggiatura messa in atto per riparare al torto subìto e ridare l’onore al nome infangato degli Ascalone. L’arzigogolo del piano architettato da Don Vincenzo è anche quello riscontrabile nel film: coadiuvato dagli sceneggiatori Age, Scarpelli e Vincenzoni, Germi connota la strada che porta al finale del film di un numero eccessivo di tornanti, troppi per non far venire il mal di pancia. Lo stile di Germi stavolta tende a ridicolizzare beffardamente certe dinamiche consolidate: in questa circostanza il cinismo del regista nei confronti del codice d’onore della Trinacria è più spudorato, quasi nauseato. Un film feroce, testimoniato dai primi piani deformanti dei protagonisti, ripresi come ferie da circo nel loro strampalato, ma fisiologico modo di intendere la vita.
Se nel precedente “Divorzio all’italiana” Germi analizzava lo status di “cornuto”, qui invece è il concetto di “illibata” a tener banco, completando idealmente il dittico di tematiche che caratterizzano la Sicilia nella sua rappresentazione più classica. Un affresco ancora una volta dall’alto valore sociologico in cui viene ripresa parte del cast già utilizzato per il precedente e già citato film-gemello, con l’aggiunta di un ottimo Urzì (premiato a Cannes) e di un nugolo di caratteristi all’altezza.
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