Regia di Pietro Germi vedi scheda film
L’Onore come valore arcaico e paesano. In una Sicilia cotta dal sole e dall’arretratezza, e verniciata col bianco accecante dell’ipocrisia, Pietro Germi ambienta una commedia esplosiva e furiosa, al limite della follia. A scatenare il delirio è, per don Vincenzo Ascalone e famiglia, l’incubo di perdere la rispettabilità, di essere esposti al pubblico ludibrio in seguito alla gravidanza della figlia sedicenne, che rischia di non essere rimediata dalle classiche nozze riparatrici. L’incombente scandalo è come un uragano, che si abbatte, su un piccolo centro rurale dell’agrigentino, con la potenza di una maledizione, e trascina tutti i suoi abitanti nel perverso rito collettivo delle finzioni e dei sotterfugi, dei complotti e delle chiacchiere, delle messe in scena organizzate come spettacoli di piazza. La legge, la religione e la giustizia rimangono sullo sfondo, a far da imbelle cornice ad un mondo in cui l’unica regola vigente è quella di fare ma non dire, di essere ma dissimulare. Il gioco delle parti, su cui si regge il funzionamento della società, è imbrigliato in principi paradossali, che sembrano creati ad arte per impedire un qualunque sviluppo, e prevenire il possibile intervento critico e costruttivo della logica e della ragione. Tutto, a cominciare dal rapporto tra i sessi, è paralizzato dalla statica contrapposizione tra tesi e antitesi, che rimangono ferme, a guardarsi da lontano, senza mai interagire per dar luogo ad una sintesi: la norma secondo cui “è diritto dell’uomo chiedere, ma è dovere della donna rifiutarsi” è un ossimoro morale che magnificamente riassume questo stato di cose, in cui il rigore e la sicurezza si identificano con un’opprimente rigidità di facciata. Lo spirito vagamente allucinato, che fa da contrappunto a questa storia di uomini urlanti e donne piangenti, è l’espressione di un’umanità disorientata ed errabonda, che si smarrisce nei meandri degli obblighi e dei divieti, in cui il lato pubblico e quello privato si confondono e si contraddicono a vicenda. Sedotta e abbandonata dipinge un grandioso ritratto di una Sicilia pervasa da un pirandelliano senso del contrario e del così è se vi pare, dove no significa sì e viceversa. E, intorno a questa doppiezza forzata, che stordisce e fa impazzire, costruisce un magistrale intreccio narrativo in cui ogni svolta è prodotta da un inceppamento dell’ingombrante ingranaggio complessivo, che è antico, e per questo arrugginito, e colossale, e per questo inamovibile.
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