Regia di Aurelio Grimaldi vedi scheda film
Primo degli ultimi due figli maschi di una famiglia povera e numerosa nella Sicilia degli anni '30, il biondo undicenne Aclà è reclutato al lavoro come 'caruso', insieme al padre e ai due fratelli più grandi, nelle 'zolfatare' di Floristella. Sottoposto alle vessazioni ed alle violenze del caporale che ne ha acquisito i servigi per otto anni attraverso il pagamento alla famiglia di una cauzione 'a soccorso morto' e sognando di raggiungere la sorella emigrata in Australia insieme al marito, fugge cercando di arrivare fino al mare, ma viene raggiunto e ricondotto alle dure fatiche tra la bolgia asfissiante dei cunicoli scavati dentro la roccia e le notti insonni passate a vegliare i carichi di zolfo destinati alla vendita.
Recuperando una tarda ispirazione verista declinata secondo le ambizioni di una sensibilità cinematografica che rielabora i temi di una tradizione letteraria ampiamente saccheggiata dagli autori neorealisti, il regista siciliano scrive e dirige un'opera che si colloca nel limbo indistinto di quel cinema d'autore che confonde la documentazione storiografica con la fiction ed il rigore estetico con gli aspetti più deteriori del calligrafismo, sempre in bilico tra le esasperazioni di una scurrile teatralità drammaturgica ed una posticcia ricostruzione d'ambiente. Non ostante la lodevole volontà di recuperare una memoria storica autoctona (il regista nasce a Modica sul finire degli anni '50) e di dare credibilità alla vicenda attraverso un casting di scafati caratteristi della 'sicilitudine' (da Burruano a Sperandeo), si contesta una certa inattendibilità antropologica dei personaggi (spesso un tono sopra una credibile identificazione culturale e una verosimile uniformità idiomatica) e lo stucchevole didascalismo nella rappresentazione di una realtà di grave arretratezza sociale ed economica che ambisce al riscatto nella vicenda esemplare della fuga disperata di un biondo 'malpelo' ribelle, un novello Antoine Doinel in salsa sicula che guadagna una incerta libertà nella sua corsa onirica sulla riva sabbiosa di una mare sconosciuto e lontano. Rimane interessante il tentativo di mostrare le condizioni miserevoli delle classi più povere nella Sicilia delle miniere di zolfo che rifornivano l'industria bellica nostrana durante la guerra coloniale, nei ritmi massacranti che scandivano la vita di famiglie poverissime e numerose tra la viscida promiscuità dei lunghi giorni in miniera, il rito del bagno settimanale come segno di una doverosa solidarietà familiare, il sabato del villaggio tra giuochi di carte e stordimento etilico ed il rapporto di subalternità con un paternalismo clericale ambiguo e infingardo. Del tutto gratuiti e pretestuosi alcuni inserti onirici che dovrebbero nobilitare il racconto con il senso di un lirismo oscuro e angosciante (una saggio personale sugli aspetti più retrivi di una cultura di forte attaccamento ai valori familiari ed all'elaborazione del lutto) ma che finiscono per acuire il senso di una ridondante artificiosità narrativa. Bella la fotografia che ritrae le brulle asperità di una Sicilia rurale e arcaica alle soglie di una remota modernità (il grammofono,la macchina dei ricchi, le lettere degli emigrati). Aclà scopre la Luna...pardon il mare!
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