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Giorni perduti

Regia di Billy Wilder vedi scheda film

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La recensione su Giorni perduti

di Antisistema
9 stelle

Non mi aspettavo molto dalla visione di questa pellicola del grande Billy Wilder (nonostante sino ad ora il regista non mi abbia mai regalato film che vadano al di sotto dell'ottimo per il sottoscritto, tranne per Quando Moglie in Vacanza che considero parzialmente deludente), e l'ho visto principalmente perchè era un film di questo gigante del cinema (di cui sto recuperando con sommo gaudio un pò di suoi film).  Mi pento per aver recuperato così in ritardo codesto capolavoro e di aver dubitato del film prima di vederlo solo perchè eccessivamente vecchio (come anno di realizzazione intendo); ed il fatto di non conoscere nulla dell'argomento del film, non ha fatto altro che cogliermi ancor più di sopresa al termine della visione di quest'opera.

 

La storia è molto semplice, ma al contempo densa ed emotivamente forte. Wilder mette in scena un weekend infernale che condurrà il suo protagonista (alcolizzato cronico), nei recessi più bui della sua nullificazione esistenziale arrivando ad un punto di non ritorno. Un fantasmagorico Ray Milland mette in scena un protagonista che è oramai giunto alla fine ed è vittima di un qualcosa più grande di lui, il piacere dell'alcool è divenuto dipendenza vera e propria, e ogni sorso è dovuto più che al piacere di bere ad una vera e propria assuefazione mentale che trova pace dalle crisi solo bevendo, e ciò getta il protagonista in un carosello in cui tutto gira senza via d'uscita.

Non è un film sull'alcolismo a mio avviso come asserisce certa critica, ma un film sulla dipendenza ed il vuoto in cui essa ci trascina. Wilder usa l'alcool come mezzo, se fosse stato negli anni '70 avrebbe usato la droga, negli anni '80 la TV e nell'era odierna Internet o smartphone.
Chi come il sottoscritto ha un passato di dipendenza da cui faticosamente e con molta fatica è riuscito ad uscirne e ancora oggi lotta con tutto sè stesso per non ricaderci, non può che avere una forte empatia verso il protagonista di quest'opera e fare il tifo affinchè trovi la forza di volontà di uscirne fuori. 
Il protagonsita del film, Don Birnam (Ray Milland) non beve per puro piacere di farlo, ma per via del fatto che è affetto da una vera e propria malattia (come argutamente Wilder fà dire alla fidanzata del protagonista); egli beve perchè si sente un fallito, una nullità; la vita gli ha dato solo frustrazioni e cocenti delusioni dalle quali riesce a sfuggire solo con la bottiglia. Wilder ci scaraventa in un incubo esistenziale atroce, allucinogeno, scabroso e squallido facendoci immedesimare appieno nel nostro protagonista. Egli vorrebbe smettere di bere (ne è conscio della sua dipendenza e lo confessa in un drammatico sfogo al fratello e alla sua ragazza in una sequnza di flashback emotivamente forte), ma non può farlo, non ci riesce perchè la dipendenza più forte della sua volontà di smettere. L'assuefazione ha raggiunto livelli enormi; le persone che  gli sono intorno ridono della sua condizione e invece di motivarlo seriamente, lo sfruttano per mero calcolo economico (le multinazionali ci campano sulla nostra assuefazione e dipendenza, traendone profitto mentre noi sprofondiamo in essa) e amano burlarsi della sua miserabile condizione, finendo con lo spillargli quattrini a credito in cambio di alcool. Solo la fidanzata (una Jane Wyman stoica, che riesce a trasmettere positivtà e cerca di aiutare il nostro protagonistà a vedere il meglio di sè e non solo il peggio) tenacemente da anni lotta per far sfuggire il nostro protagonista da tale spirale autodistruttiva, ma al momento sembra una mera ed inutile battaglia contro i mulini a vento.


La dipendenza ci consuma, corrode, imbestialisce sino a condurci nel baratro della pazzia più totale. La dipendenza fà terra bruciata intorno a noi e ai nostri rapporti interpersonali, finendo con il farci restare in una solitudine da cui uscire è molto difficile.
La regia di Wilder usa espedienti noir (che l'autore conosce benissimo, visto che l'anno prima aveva diretto La Fiamma del Peccato). Spazi angusti, forti tagli di luce (l'ombra della bottiglia nel lampadario proiettata sul tetto, sostituisce l'ombra minacciosa tipica dei film di genere), uso  sapiente della profondità di campo (inquadratura da dietro le bottiglie del bar) e musica spettrale conferiscono un forte carattere noir al film, nonostante ci si ritrovi dinnanzi a una storia che è alla fin fine un dramma esistenziale.
Il finale non poteva che essere quello, un filo di luce a lungo atteso, un miracolo vero e proprio che, lungi da rendere ottimista tale film, vuole essere pienamente catartico e dare un chiaro messaggio morale; il protagonista uscirà dalla sua dipendenza? Chissà... per quanto ne possiamo sapere, per ora ha raggiunto la consapevolezza della follia in cui si stava gettando e quindi con un forte gesto (chi è dipendente ha bisogno di gesti del genere, sia pure per farsi forza mentalmente) decide di tentare di combattere nuovamente. 

Che dire, un film degno dell'aggettivo capolavoro, oramai sempre più abusato. Una regia stratosferica (come non citare la macchina da presa che avanza verso il bicchiere di Whisky e con uno stacco di montaggio ci immerge nell'oscurità del liquido), una fotografia che cattura perfettamente i grigi e i neri della vita di Dan, una sceneggiatura che tratta senza fronzoli, retorica ed in modo diretto (per l'epoca soprattutto) un problema di tale portata e un attore protagonista perfetto, ci consegnano ancora oggi un film che conserva una carica di freschezza e una potenza nel tratteggiare la dipendenza che ancora oggi scuote l'animo dello spettatore (e se soffre/o ha sofferto di una qualsiasi dipendenza come il nostro protagonista, non potrà che trovare tale film estremamente catartico). Un film quindi che ancora oggi ha moltissimo da dire; la dipendenza da alcool forse ha meno importanza poichè sostituita da altro tipo di assuefazioni (tecnologia in primis), ma alla fine poco importa, perché è un capolavoro assoluto del cinema assolutamente da preservare, vedere e custodire per farne dono alle nuove generazioni di spettatori; inoltre, credo che se vi siano persone in difficoltà come il nostro protagonsita, possa avere anche un forte valore terapeutico. 

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