Regia di Billy Wilder vedi scheda film
John Lennon chiamò “my lost weekend” il periodo di separazione da Yoko Ono e questo la dice lunga sull’incisività di questo film sulla cultura americana. Espansione ma anche ripiegamento nei codici del noir dopo il capolavoro iconico La fiamma del peccato, è un’alienata indagine sul dolore che segna un’altra importante tappa nell’adesione alla modernità del cinico nostalgico Wilder. Come altri film del decennio (citiamo l’ovvia pietra miliare Quarto potere ma anche Piccole volpi), Giorni perduti è un lavoro sull’uso poetico della profondità di campo che si rivela essere scelta funzionale allo smarrimento del corpo attoriale nello spazio ostile. Ispirato dalla precedente esperienza con Raymond Chandler (collaboratore ne La fiamma), Wilder focalizza la sua attenzione sull’angoscia di uno scrittore frustrato e più in particolare sul suo alcolismo, il vero perno del film (il rapporto con la bottiglia come vera connessione tra il disagio e un oggetto che procura ed annulla il disagio), e sfrutta al meglio il magnifico bianco e nero di John Seitz che proietta le tenebre interiori in un tangibile mondo delle ombre e la partitura di Miklos Rozska che esalta l’inquietudine e la sofferenza fisica. Forse è un film che vive abbastanza autonomamente nella filmografia del regista: l’incubo è una parentesi onirica di dichiarata finzione in un cinema pieno di incubi che si fingono reali. Ruolo della vita per Ray Milland, premiato a Cannes ed oscarizzato assieme a film, regia e sceneggiatura e grande successo commerciale: la cattiva coscienza dell’America.
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