Regia di Billy Wilder vedi scheda film
Quattro premi oscar al film, alla regia, alla sceneggiatura e alla straordinaria interpretazione di un superlativo Ray Milland più una meritata Palma d'oro a Cannes e un altro importante riconoscimento al suo protagonista: questo il cospicuo bottino portato a casa nel 1946 da "Teh lost weekend" (rititolato in Italia - questa volta senza tradire troppo il senso del film - "Giorni perduti") una delle grandi prove registiche di Billy Wilder tutta orientata sul versante drammatico di una storia che sembra voler virare verso la tragedia.
Dramma di costume insomma su un caso di alcolismo metropolitano, "Giorni perduti" (sceneggiatura dello stesso Wilder e di Charles Brackett a partire da un romanzo di Charles R. Jackson) appartiene a una fase della carriera del regista in cui è ancora forte l'ascendenza germanica delle sue origini (ci si trovano dentro molte reminiscenze legate all'espressionismo, per esempio nella rappresentazione allucinata di una insolita, inquietante e ostile New York) in cui il cinismo viene rappresentato con una marcata durezza delle immagini (gli squallidi bar di una città totalmente priva di glamour, ripresa in esterni e non ricostruita in studio) e delle situazioni, totalmente priva dell'ironia e della leggerezza quasi sempre presenti nelle altre sue opere, anche le più cupe.
La struttura narrativa si può senz'altro definire classica (nel senso che segue scrpolosamente nell'andamento generale della storia, i dettatti del cinema hollywoodiano del periodo) ma con novità importanti come appunto la scelta di girare in esterni e non in set ricostruti in studio, e questo al fine di rendere più credibilmente veritiera l'intera vicenda.
Particolare rilievo e importanza deve essere poi attribuita alla sequenza dell'incubo visionario del protagonista che adesso può risultare persino ingernuo - e mi riferisco all'episodio "sognato" del pipistrello che attacca il topo - che io trovo però ancora oggi particolarmente raccapricciante e soprattutto di grande efficacia e tensione.
Sappiamo che Wilder dovette lottare molto per ottenere dalla Columbia i finanziamenti necessari a realizzare il film accettando persino alcuni compromessi come quello di rinunciare a José Ferrer per il ruolo di protagonista a favore di un Ray Milland (che poi lo ripagò egregiamente) imposto - proprio per la sua faccia da bravo ragazzo - dalla produzione che temeva l'impatto traumatico di un argomento così forte e pericoloso su un pubblico abituato a vedere l'ubriaco rappresentato come un personaggio comico e di contorno e voleva garantirsi almeno un poco ricorrendo a un volto più pulito di quello maggiormente ambiguo di Ferrer. Non solo questo però perchè Wilder dovette rinunciare pure (i tempi non sarebbero stati comunque maturi e sicuramente fece bene a farlo) alla connotazione del fatto che l'alcolismo di Dan Miller, il protagonista della storia, era in parte derivato dal suo essere anche omosessuale e non solo dalla disillusione di uno scrittore agli esordi che si è visto rifiutare la pubblicazione di ben quatto romanzi.
Nel film infatti è la perdita della speranza di poter aspirare a diventare un autore di successo, l'addio ai propri sogni di gloria, a spingerlo verso la bottiglia. Inizia così a bere in maniera sempre più smodata fino a diventare a tutti gli effetti un alcolista dichiarato.
Nonostante i tentativi del fratello e della fidanzata che cercano in ogni modo di farlo desistere da quell'abitudine davvero devastante, Dan ormai preda del demone dell'alcol trascorre le sue giornate con l'unico pensiero di trovare il modo di potersi procurare un'altra bottiglia di whisky anche ricorrendo a pratiche particolarmente umilianti (bottiglie che poi nasconde nei posti più impensati, per evitare che gli vengano sottratte da chi gli vuole bene).
La situazione peggiora sempre più e la spirale diventa irreversibile, così che dopo molte vicissitudini come quella che lo vede organizzare una rapina per procurarsi i soldi necessari a sostentare il suo vizio, sfocia inesorabilmente in un ricovero coatto in un ospedale per alcolisti, degenza durante la quale si svilupperà la terribile fase delle allucinazioni dovute all'astinenza forzata che lo indurranno a decidere di togliersi la vita (la tragedia è comunque soltanto sfiorata poichè erano ancora i tempi i cui se non proprio con l'happy end, si preferiva comunque chiudere i film almeno con un messaggio di speranza e di redenzione.
Ottima anche la colonna sonora (musiche di M. Rosza) e la fotografia di John F. Seitz che fa un sapiente uso della profondità di campo.
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