Regia di Mervyn LeRoy vedi scheda film
Nonostante non si possa classificare come un tipico film gangsteristico pre-noir, Io sono un evaso viene, molto spesso, poeticamente accostato dalla critica, ai pilastri degli anni '30 di questo genere.
Parliamo di capolavori come Scarface (1932) di Howard Hawks, Nemico Pubblico (The Public Enemy - 1931) di William A. Wellman, I ruggenti anni venti (The Roaring Twenties - 1939) di Raoul Walsh e Piccolo Cesare (Little Caesar - 1930) ancora di LeRoy.
A questi possiamo aggiungere il dittico del regista “indipendente” William Keighley che, con La pattuglia dei senza paura (G-Men – 1935) e Le belve della città (Bullets or Ballots - 1936), in opposizione all'eccesiva epicità regalata ai criminali dalle pellicole “maggiori”, ribalta il punto di vista narrativo, dando finalmente il giusto tributo, a chi il crimine lo combatteva a costo della vita.
In queste opere, in cui la trama è costantemente intrisa dell'eterna lotta tra bene e male, giganteggiano 3 attori che marchiano a fuoco questo decennio: James Cagney, Edward G. Robinson e Paul Muni.
Proprio quest'ultimo, il meno divo dei tre, è però l'indiscusso protagonista delle due opere che si ergono appena una spanna sopra le altre. Stiamo parlando del celeberrimo Scarface di H. Hawks, il cui remake è ormai considerato un'icona pop degli anni '80, e dal meno appariscente, ma altrettanto poderoso, Io sono un evaso.
A mio modestissimo parere, il capolavoro di LeRoy, mai così ispirato nella sua altalenante ma incessante carriera, supera di un'icollatura il capolavoro di Hawks per il suo essere così moderno, grazie alla sua estetica demitizzante e al suo sguardo oggettivo e distaccato sui personaggi.
Come se non bastasse, mai prima di allora, si era riusciti a costruire una narrazione così serrata e intensa, in cui i classici momenti di stasi narrativa, prelusori dei picchi di sunspence o delle immancabili esplosioni di violenza, vengono letteramente estirpati dall'intreccio, per lasciare spazio ad un raffica continua di eventi, carichi di pathos ed incessanti sconvolgitori dello status quo narrativo.
E' un'ora e mezza in apnea totale, dove le ascese e le discese del protagonista sono delle montagne russe emozionali, prive di rallentamenti nemmeno per i cambi di rotta.
Al contempo, il registro espressivo, corre sui binari del poco impiegato, fino a quel momento, e rischioso per l'epoca, filone dell'antieroismo e dell'antidivismo. La fotografia azzarda uno stile quasi documentaristico suggerendo una alquanto inedita visione “distaccata” ed oggettiva.
Ne viene fuori un criminal-dramma crudo e realista, che conterà ben pochi epigoni negli anni e nelle decadi a venire. Un diamante grezzo che ancora adesso rimane un perla relativamente nascosta della cinematografia di tutti i tempi.
Ma come si dice in inglese “the best is yet to come”. Il finale (di cui non spoilererò quasi nulla state tranquilli) è letteralmente una stilettata al cuore. Lacerante e brutale sintesi di un universo esistenziale, che ha fluttuato vorticosamente dai bassifondi della detenzione forzata, fino ai piani altissimi dell'imprenditoria e poi ancora giù senza pietà nella miseria urbana perchè la pellicola è anche un bellissimo affresco sul sogno americano, che puo trasformarsi però in un incubo, con la medesima faciltà e levità con cui si è concretizzata la propria intima utopia.
Una sola parola, un verbo, per dare l'ultimo giro di chiave emotivo alla storia: l'inquadratura finale, rapida e brusca, ha però l'intensità e la forza esplosiva di un macigno che precipita in uno specchio d'acqua calmo e piatto.
Le emozioni dello spettatore sono ora cerchi concentrici che si irradiano ardenti e lancinanti per tutto il corpo. Ma non c'è più tempo. Dissolvenza sul nero. Il film è già finito e noi rimaniamo lì “interrotti” con ancora tutta la trama in circolo e le farfalle nello stomaco. In totale contrasto con l'ambiente, ormai dominato dal silenzio e dal buio dello schermo. Ma dentro di noi tutto vibra. E ci vorrà un po' di tempo per riprenderci.
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