Regia di Sidney Lumet vedi scheda film
Durante la seconda guerra mondiale cinque soldati britannici vengono trasferiti in un campo di disciplina in Africa.
Soldato 1: McGrath, rude e roccioso, colpevole di aver assalito da ubriaco alcuni membri della polizia militare. Soldato 2: Jacko King, alto, nero, sorridente e compiacente. Ha rubato qualche bottiglia di whisky dalla mensa ufficiali. Soldato 3: Stevens, emotivamente fragile e inadatto alla vita militare. Ha tentato di disertare perché sentiva nostalgia della moglie. Soldato 4: Bartlett, grasso e vile, detenuto per la nona volta, colpevole di furto e ricettazione di materiale dell'esercito. Soldato 5: Roberts (Sean Connery), ex sergente maggiore, ironico, tacciato di vigliaccheria, "ha spaccato i denti al suo comandante" dopo essersi rifiutato di condurre una missione suicida.
A gestire il campo è il sergente maggiore Wilson, energico, granitico, rigoroso ma equo e non privo di senso dell'umorismo. Sotto di lui il sergente Harris (sensato ma defilato) e il sergente Williams (fresco di trasferimento, ex guardia carceraria. basso, impettito, occhi sempre nascosti dal berretto o all'ombra della visiera).
Serg. Mag. WILSON: "Vedi la collina? Un lavoro di fino. (...) L'hanno fatta i detenuti."
ROBERTS (sull'attenti): "Magnifica signore, una grande opera edile."
W: "Fa caldo lassù, scotta."
R: "Mi era parso di vederci la neve sulla cima."
W: "Non vedi l'ora di fare una scalata, vero?"
La volontà dei soldati viene spezzata a colpi di corse zavorrate su e giù per la collina artificiale che torreggia al centro della struttura. Roberts è subito oggetto di attenzioni particolari ma non si dimostra cedevole e risponde a tono agli eccessi del sadico Williams ("Li conosco quelli come lei, ingoierebbero merda pur di avere un'uniforme e fare il boia."). Williams si accanisce allora su Stevens per colpire Roberts che ha cercato di proteggerlo. Già provato nel fisico e nella mente Stevens viene costretto a un turno supplementare sulla collina con indosso una soffocante maschera antigas. La prova gli sarà fatale. Da quel momento cambiano i rapporti tra detenuti e superiori al pari di quelli tra gli stessi graduati. Gli scontri si moltiplicano, le norme e i ruoli perdono di significato e si dissolvono uno dopo l'altro fino a rivelare la vuota incoerenza della struttura militare.
Film sorprendente e decisamente sottovalutato, che evoca molto più di quanto non dica la trama. Scritto e recitato in maniera splendida da un cast in prevalenza britannico. Non c'è ombra di musica ma non se ne sente la mancanza, ha infatti un gran ritmo per merito del tempismo dei dialoghi, del minuto intreccio di personalità e di una regia che ricorre a un montaggio più serrato e alla veloce intromissione di primi e primissimi piani per esaltare i momenti più eccitati. È anche un caso raro e opportuno di opera antimilitarista che riesce a non far spettacolo di eventi bellici. La forma è infatti quella del "prison movie" ed è proprio questa veste che, oltre ad evitare di dar soddisfazione agli amanti del giochi di guerra e lungi dall'essere penalizzante, consente una visione più articolata delle differenti mentalità e del loro significato nell'apparato militare. L'interesse in tal modo può rivolgersi non solo dicotomicamente al rapporto tra chi il potere lo esercita e chi lo subisce ma anche agli effetti che generano i diversi tratti caratteriali all'interno di ciascun gruppo e rispetto al sistema militare nel suo complesso. La cosa è particolarmente evidente se prendiamo in considerazione il gruppo di chi il potere lo detiene e lo esercita (c'è anche chi lo detiene e non lo esercita: il comandante, esempio supremo di inutilità e inconsistenza dei valori militari, passa le notti in dolce e remunerata compagnia e ogni tanto fa una scappata al campo per firmare quel che il sergente maggiore gli dice di firmare: "Firmerebbe la sua morte se gliela passassi", sottolinea Wilson).
I posti di potere: il serg. mag. Wilson (un memorabile Harry Andrews) è una commistione di elementi che ne fanno un personaggio molto più interessante e originale rispetto al solito fanatico che potremmo aspettarci in quel ruolo. Ha sì le caratteristiche del sergente di ferro dalla mascella squadrata, sboccato, roboante, orgoglioso di mettere in riga carogne e feccia varia, ma sa riconoscere i traguardi raggiunti ai soldati che lasciano il campo ("Ne ho avuti a migliaia come voi, tutti codardi e rifiuti di fogna, ma quando li ho sbattuti via erano come voi due, uomini degni della loro uniforme"). Non ha vene di sadismo e sa valutare i detenuti con imparzialità ("Sei fuori posto qui, Stevens. Obbedisci e forse uscirai in anticipo"). Se è razzista non lo è davanti a valori più alti: dà infatti volentieri la possibilità a King di stare nel gruppo dei bianchi in quanto "suddito dell'Impero Britannico". Lo vediamo poi sedare una protesta a seguito della morte di Stevens con buon senso, spirito e rispetto del regolamento e dei diritti dei detenuti. Sembra insomma una figura autorevole, flessibile e cameratesca, un soldato da imitare, un buon esempio dei saldi principi che tengono in piedi il glorioso esercito britannico (e la tradizione militare britannica di sicuro porta in dote un'aura di credibilità molto solida).
Le cose cambiano con l'arrivo del sergente Williams, che di per sè sembrerebbe un personaggio troppo unidimensionale per essere interessante (ma forse lo è solo troppo per essere casuale). Di certo la sua identità di sadico aguzzino è necessaria per innescare le svolte drammatiche ma è anche vero che è un'identità talmente monolitica e imperscrutabile da sembrare astratta (soprattutto se accostata alle sfumature che presentano altri protagonisti). Williams possiede diverse caratteristiche "disumanizzanti": gli occhi sono quasi sempre coperti (e raramente lo si vede senza cappello, in un caso è ubriaco fradicio quindi comunque non in sè), è l'unico completamente privo di senso dell'umorismo, è sempre rigido, sull'attenti, si muove a passo di marcia, non si scompone mai e anche quando le accuse lo investono in pieno le sue reazioni più forti sono comunque nel segno dell'aggressività. Williams è quasi la violenza stessa, la violenza che trova facilmente spazio e impiego nelle strutture militari. La violenza vile delle istituzioni ( fa fare il lavoro sporco ad altri). La violenza che non solo viene usata e protetta dal "sistema" (anche dal suo volto più efficiente e accettabile, cioè Wilson) ma che fa presto carriera (il serg. Harris parte da superiore e presto diviene subalterno di Williams). Perchè in fondo quella è casa sua (Williams si dice tagliato per quel mestiere) mentre l'umanità del serg. Harris si è assopita e atrofizzata perché è fuori luogo, inutil(izzata). Lo stesso si può dire dell'Ufficiale Medico, che tende a fare il meno possibile con visite che hanno il solo scopo di consentirgli di vedere "la dotazione" dei soggetti ("Sono idoneo?" gli chiede Roberts, "E per quale mansione, toro da monta?"). Nel suo caso c'è poi l'aggravante che a smuoverlo dal torpore morale è anche la paura di diventare il capro espiatorio per aver dato l'idoneità a Stevens.
"Il sergente maggiore fabbrica automi, Williams li distrugge", dice Roberts a un compagno di cella (il concetto dei soldati come automi /manichini è ricorrente ed è anche molto [ troppo?] chiaro nella scena della morte di Stevens, sorta di pupazzo a molla che esaurisce la carica). Williams e Wilson sembrerebbero diversi ma sono due facce della stessa medaglia (il William Wilson di E.A.Poe è una coincidenza?), sono tutti e due parte dello stesso meccanismo, insieme compongono lo spirito dell'esercito, che crea soldati-automi per mandarli a distruggersi in guerra. Ecco che allora la violenza non può non risorgere periodicamente anche se il sistema l'ha nascosta, perché è la ragione e la finalità della macchina. E quando risorge le contraddizioni vengono a galla visibili e corrodono la struttura. Wilson difende il suo subalterno Williams davanti ai soldati come si è impegnato a fare e come prescrive il regolamento (un "codice d'onore") e lo difende anche quando questa posizione lo porta ad avversare l'onore (non "relativo") rappresentato da Roberts. Il sistema non può riconoscere l'onore se questo è contrario alla violenza connaturata al sistema e quando Roberts lo sperimenta (per la seconda volta dopo l'insubordinazione per cui è dentro) finalmente prende coscienza del fatto che le norme che ancora rispettava sono stupide e senza senso: lo griderà in faccia al serg. mag. Wilson senza ovviamente ottenere alcun risultato perché Wilson è un "credente" ed è lì per preservare le strutture, non per discuterne le fondamenta ("saresti perso se qualcuno non ti impartisse degli ordini", così chiude l'accesa discussione il serg. mag.). Wilson terminerà poi sconfessando e abbandonando Williams ("sei troppo schifoso anche per me!") ma anche se probabilmente ne uscirà pulito la sua è comunque una figura confusa, contraddittoria, che ha perso l'autorevolezza che sembrava possedere in principio.
Il crollo dell'ordine diverrà poi sempre più evidente, ad esempio quando farà emergere il rabbioso razzismo (altra violenza nascosta) di Wilson verso King, evento che darà il la ad una delle scene più belle e singolari: King, sentendosi dare dello "scimmione nero" s'infuria, si spoglia, si dichiara congedato e comincia a comportarsi davvero da scimmia (il che a sua volta rappresenta uno squarcio grottesco nell'ordine prevalentemente realistico del film). Come scimmia King irrompe in mutande nell'ufficio del comandante, lo sconvolge un po' col suo fare animalesco e poi ridendo diventa d'un tratto un civile disinvolto, prende una sigaretta al comandante e gli fa: "Orazio, siediti. Non alzarti per me. Ho buttato i gradi, io." King rompe la "forma" (inconcepibile per degli inglesi...) semplicemente volendolo e rivela che senza fedeli "il re è nudo".
Un altro momento di dissoluzione delle strutture lo incontriamo nel finale, in un "faccia a faccia collettivo" a muso duro fatto di primissimi piani (per cui vengono usati obiettivi grandangolari dall'effetto deformante), con l'Ufficiale Medico sulla difensiva, accusato da Williams che sembra aver preso il comando (ed ha infatti Wilson dietro una spalla a supportarlo) e con Harris che invece spalleggia Roberts e attacca Wilson assicurandogli che durante l'indagine "parlerà senza farsi fregare" e sarà lui a "spezzargli le reni". In questo caso non è solo il ricorso a uno stile visivo particolarmente espressivo a rendere la dissoluzione dell'ordine ma anche lo scambio/confusione di ruoli prodotto da gerarchie friabili, vuote, non più riconosciute nemmeno da chi le compone.
Un accenno alla collina del titolo (THE HILL in originale, inutilmente patetico il titolo italiano). C'è da sbizzarrirsi sul valore simbolico di quello che è il centro del campo e del film. Questa collina artificiale alta dieci metri che esteriormente somiglia maggiormente a una piramide (un richiamo agli schiavi? Ai sacrifici umani mesoamericani?) non è solo un esercizio impegnativo per mettere alla prova volontà e atletismo, che ben altri strumenti di tortura potevano allora prendere il suo posto. È il fulcro e il fine dell'attività militare. È guerra. E come la guerra è un supplizio di Tantalo, infinito e inutile. La collina che in tanti film bellici è l'obiettivo da conquistare, la vetta simbolica, la vittoria, qui non può essere conquistata definitivamente, è un sacrificio che conduce a un altro sacrificio e ancora ad altri all'infinito. E uccide o rende pazzi come ci si dovrebbe aspettare dal suo riflesso.
( ! ATTENZIONE SPOILER IN ARRIVO ! )
Il finale del film vede Williams (presumibilmente) ucciso da King e McGrath, la qual cosa scatena la disperazione di Roberts che sentiva di averlo in pugno. Volendo proseguire la via simbolica la violenza come suo solito ha prodotto violenza e quale che sia la sorte di Williams quello che rappresenta ha vinto (potrebbe anche essere voluto il fatto che al momento in cui viene linciato è senza cappello e grida, è cioè più umano del solito). Ma aldilà della caccia alle sciarade vere o presunte forse è più interessante notare che tutta questa simbologia è intelligentemente controbilanciata da una messa in scena dura, asciutta, molto concreta. La scena finale è dura nei contenuti quanto nei modi, sia perchè dalle parole si passa ai fatti sia per come si chiude: Roberts disperato, rumori di rissa a cui si sovrappongono suoni crescenti di esercitazioni, poi un secco passaggio al nero e rumori di una porta sbattuta, di una serratura e di passi che si allontanano.
Poi il silenzio.
Come per il resto del film sui titoli di coda non c'è musica. Viene da pensare: hanno perso, la loro onorevole battaglia finisce lì, sepolta in una cella e dimenticata. Tra la ragione e la forza vince quest'ultima, non c'è altro da dire. Il finale è così netto ed è così insistito il richiamo a fisicità e materialità che ti viene da escludere che ci sia da scavare alla ricerca di simboli e significati ulteriori (in un certo senso assumi nel guardare alla scena lo stesso stile concreto con cui ti è presentata). E il discorso chiaramente vale per l'intero film. Se c'è un modo giusto di mettere in scena un sistema di simboli per permettere loro di lavorare sottotraccia indisturbati quest'opera ne è l'esempio perfetto. Esclusa la musica (allusiva per eccellenza), esclusi ogni lirismo e ogni palese crittografia, esclusi paesaggi o immagini su cui soffermarsi significativamente, Lumet si affida invece ai personaggi, alla loro fisicità, le loro azioni e le emozioni sui loro volti, a suoni d'ambiente chiaramente interpretabili e a dialoghi ininterrotti che sembrano proprio parlare chiaro. Tutto è reale, diretto e determinato. Nessuno potrebbe immaginare che sta contrabbandando simboli.
Si riporta che Lumet impose agli attori e alla troupe turni massacranti sei giorni a settimana per dieci ore al giorno con temperature che raggiungevano i 45° (gli esterni furono girati nella "solita" Almeria). I piani ravvicinati e le sequenze lunghe e senza stacchi esclusero l'uso di controfigure. Lumet fece vedere di persona agli attori come salire e scendere la collina, dimostrando che il suo non era sadismo.
LA COLLINA DEL DISONORE vinse il premio per la miglior sceneggiatura a Cannes 1965. La sceneggiatura trae spunto da un testo teatrale di Ray Rigby basato sulle esperienze dello scrittore in un campo punitivo durante la seconda guerra mondiale.
Ha detto Woody Allen: "In una filmografia come quella di Sidney Lumet, che comprende diversi film straordinari, forse THE HILL è il più riuscito. Di certo io lo considero uno dei migliori film americani. La realizzazione di questa storia avvincente è perfetta, dall'impeccabile performance degli attori al movimento ispirato della macchina da presa. È un'esperienza immediata e totale. Tutte le volte che lo vedo mi stupisco che un film così bello possa passare inosservato e cadere nell'oblio com'è invece successo"
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta