Regia di Orson Welles vedi scheda film
Incubo burocratico ed esistenziale, apoteosi di espressionismo e barocchismo, geniale adattamento al linguaggio filmico della soffocante prosa kafkiana, "Il processo" è uno dei capi d'opera di Orson Welles e, come tante altre opere del grande cineasta americano, rimane un caso a se stante, fuori da ogni tempo, da ogni corrente, da ogni classificazione. Vi si rappresenta, nel segno di una astrazione distillata però dai dati concreti ed oggettivi di una quotidianità aberrante, quell'enorme, infinito, frustrante giro a vuoto che costituisce l'essenza di una realtà indecifrabile. La propria dimora può essere violata in quasiasi momento; il proprio ufficio diventare un lager. Non si dà vita privata o tempo libero se non quello speso nel labirinto di stanze, corridoi, scale, porte che conducono ad altri claustrofobici ed assurdi luoghi di un Potere che assume via via connotazioni sempre più paradossali e sfuggenti. "Il processo" è anche una brillante satira delle istituzioni e della loro grottesca burocrazia, non priva di momenti di spassoso humour, ma ovviamente Welles mira più in alto: sono i concetti di responsabilità, colpa, vergogna, isolamento, disorientamento, illusione ad essere sviscerati in tutta la loro ambigua complessità. Josef K. (un memorabile Anthony Perkins, che avrebbe meritato ben altra carriera, viste le straordinarie capacità di recitazione) è, in un certo senso, vittima di se stesso, delle sue ossessioni. Egli è tanto vittima quanto carnefice. Welles evidenzia questo aspetto in diversi frangenti: come quando, in una delle sue proverbiali distorsioni prospettiche, fa apparire K. un gigante e il suo mellifluo avvocato (interpretato dallo stesso Orson Welles) una minuscola figurina. Quello che parrebbe un personaggio potente, influente, carismatico è solo un millantatore, un colosso dai piedi d'argilla, un "The Master" anderson-iano ante-litteram; e quello che invece dovrebbe essere un onesto cittadino qualunque si rivela invece un titano, per quanto impotente. In un certo senso, Josef K. è lo stesso Welles, cineasta vittima tanto di un sistema castrante quanto della propria megalomania. E come spesso accade, anche nel "Processo" il grande Orson si ritaglia la sua classica parte di "genio del male", quasi come forma di riscatto catartico, creando un corto circuito con la realtà. Nella resa dei conti del pre-finale, fra l'avvocato e Josef K., il set si svuota, illuminato dalla sola, metaforica luce di un proiettore di diapositive: entrambi i personaggi, boriosi contendenti di un teatrino del nulla, rivelano la loro natura di fantasmi o di automi, vuoti simulacri di ruoli sociali inconsistenti; esistono solo come mere proiezioni e, quando l'immagine scompare, rimane solo la loro ombra. Restano soli con le loro responsabilità e il loro frustrato desiderio di conoscenza e di giustizia, la loro brama di controllo. Si avverte un senso di vergogna, di svelamento, di nudità, così come anche nella surreale e sadica (quasi bunueliana) sequenza del colloquio col pittore, in una stamberga di legno, spiati da un'orda di maliziose ragazzine. Non esiste più un dentro e un fuori, un privato e un pubblico. L'essere umano è nudo, solo, orfano; può anche essere scaltro, intelligente, sicuro di sè (e Josef K. lo è), ma non potrà mai cogliere il senso della sua presenza in questo mondo, poichè ci sarà sempre un livello di verità inaccessibile. L'uomo ha creato un sistema, una serie di istituzioni, di macchinari, di procedure che però non semplificano nè migliorano la sua vita, bensì lo condannano. Ma prima che di ogni altro "sistema", l'uomo è vittima della parola, dei suoi molteplici significati, della sua malleabilità, della sua fallacia semantica (e in questo, al di là dell'inimitabile testo kafkiano, occorre rilevare la strepitosa armonia fra direzione ed interpretazione attoriale, sempre in bilico fra plausibilità e fantastico quotidiano). Interessante la figura della donna: ella è amante proibita, seducente prostituta, schiava del potere maschile, in ogni caso figura inafferrabile, oasi precaria di fascino e sensualità in un mondo asettico, grigio, connotato da scartoffie e ruderi suburbani. Stilisticamente è un film debordante di idee, trovate, soluzioni; per brio creativo, si può accostare ai coevi, mirabolanti "8 e mezzo" e "L'anno scorso a Marienbad". Welles scandaglia lo spazio in lungo e in largo, costipa decine di corpi in spazi angusti (inquietante la sequenza dell'ingresso nella sala giudiziaria), rievoca scenari da Olocausto, imprigiona i personaggi nella schiavitù temporale del piano-sequenza, squadra lugubri ambienti mettendone in risalto soffitti incombenti e disumane architetture, connette irrazionalmente un luogo all'altro attraverso varchi che rivelano orrori ed enigmi, gioca divertito e angoscioso con specchi ed ombre, utilizza la profondità di campo per suggerire impossibili vie di fuga, conserva un tono velatamente onirico senza mai sfociare nel visionario puro. Trarre un capolavoro cinematografico da un capolavoro letterario è difficile per molti registi. Non per Orson Welles.
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