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Scent of a Woman - Profumo di donna

Regia di Martin Brest vedi scheda film

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Eric Draven

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La recensione su Scent of a Woman - Profumo di donna

di Eric Draven
5 stelle

 

Oggi voglio parlarvi di un film che certamente avrete visto. E credo anche più di una volta. Perché è considerato oramai un classico imprescindibile. Sebbene io, e ne spiegherò le ragioni, non lo consideri affatto un grande film, tutt’altro.

È diretto da Martin Brest, regista che veniva da due successi incredibili come Beverly Hills Cop e Prima di mezzanotte e, prima che ci ammorbasse con l’indigesto Vi presento Joe Black e poi franasse nel dimenticatoio, a Hollywood avevano scambiato per un valentissimo autore. Ciò non toglie che, in effetti, all’epoca sapeva arruffianarsi molto bene il pubblico e il suo succitato Midnight Run rimane a tutt’oggi un rocambolesco, delizioso road movie davvero riuscitissimo.

Qui fece il furbetto. Il film è un remake hollywoodiano dichiarato dell’omonimo film di Dino Risi del 1974, che era tratto dal romanzo Il buio e il miele di Giovanni Arpino. Film, questo di Risi, che fu candidato all’Oscar come Miglior Film Straniero e per la Miglior Sceneggiatura non Originale, e si avvalse di un Vittorio Gassman mattatore.

Il film di Brest invece di candidature all’Oscar ne ricevette ben quattro, tutte principali, una per la sceneggiatura di Bo Goldman, oltre a quelle prioritarie per Miglior Film, Miglior Regia e naturalmente quella per il Miglior Attore Protagonista.

E fu infatti il gigionesco e splendente Al Pacino a vincere la sola statuetta assegnata al film.  A sua volta la sua, peraltro, unica statuetta in tutta una carriera d’interpretazioni antologiche e fenomenali, dopo ben 7 nomination andate a vuoto, e da allora, incredibile ma vero, nonostante d’interpretazioni pregiatissime e di alta scuola attoriale ne abbia offerte mirabilmente molte altre e penso, solo per citare qualche esempio rilevante, a Carlito’s WayDonnie BrascoHeatInsider e perfino al suo satanello spiritato ed eccessivo de L’avvocato del diavolo, al suo demiurgico Viktor Taransky di S1m0ne, oppure al suo Will Dormer, sciupato detective ombroso e rugoso d’Insomnia, di candidature non ne ha avute più. Nemmeno una, e correva il “lontano” anno 1992.

Un Oscar, il suo, quasi alla “career”. Non che non lo meritasse, sia chiaro, ma avrebbe dovuto vincerlo molto prima. Non voglio fare della dietrologia scontata ma i suoi titanici Michael Corleone del coppoliano Il padrino - Parte II, Sonny di Quel pomeriggio di un giorno da cani e soprattutto il suo epico Tony Montana del depalmiano Scarface (per cui invece ricevette scandalosamente solo la nomination ai Golden Globe) abbisognavano, a mio avviso, di questa massima onorificenza, del più aureo riconoscimento cinematografico. Anche se, a essere onesti, nel 1975 di Dog Day Afternoon, può darsi che l’iconoclastico e ancor più trasgressivo e clamoroso Nicholson di Qualcuno volò sul nido del cuculo fosse stato addirittura maggiormente potente al fine di poter vincere l’ambito Academy Award, come infatti è avvenuto.

Ma gli Oscar sono, in fondo, giochini.

Scent of a Woman è comunque un film che regge pressoché totalmente su di lui, Al Pacino, e chi se no, sulla sua magistrale bravura, sul suo “timing”, sul suo debordante carisma e sulla sua tagliente, sardonica voce roca, ottimamente resa nel doppiaggio italiano dal suo affezionato Giancarlo Giannini. Senza di lui, il film avrebbe perso tutta la sua forza. Ed è per questa basilare ragione che, sostanzialmente, non è un grande film.

Perché la trama, in fin dei conti, è assai banale e dolciastra, ricattatoria, molto stereotipata, infarcita di pedanti luoghi comuni sull’adolescenza e sui ciechi (con tanto di esagerata scena famosa di Pacino, appunto cieco, che guida come un pazzo per i vicoli cittadini), sulle donne, un film cioè assai retorico e convenzionale, standardizzato ma che, per la sua scaltrita formula ineccepibilmente confezionata, vispamente continua a far breccia nel cuore degli spettatori, paradossalmente soprattutto femminili, che citano a memoria il celeberrimo monologo finale, declamato superbamente dal nostro Pacino. Un monologo sull’ipocrisia del sistema che, facilmente, può tornare utile a ogni ragionamento vostro solipsistico. Per la serie... appena pensate di aver ricevuto un torto, tirate fuori dalla memoria le lapidarie parole accusatorie di Pacino...

Ecco, non starò più di tanto a riferirvi la trama perché la vicenda è arcinota. Mi limito, per dovere recensorio ineludibile, semplicemente col dire che è una pellicola “coming of age”, un didascalico, lineare racconto di formazione particolare, innestato sulla tenera e compassionevole, reciproca amicizia fra lo studente Charlie Simms (Chris O’Donnell), che rischia di essere espulso dalla sua prestigiosa scuola perché non vuole testimoniare in merito a uno squallido scherzo messo in pratica malvagiamente da alcuni suoi compagni ai danni del preside, e il Tenente Colonnello Frank Slade (Al Pacino). Charlie farà da accompagnatore a Frank durante il weekend del giorno di Ringraziamento e, nonostante le forti diffidenze iniziali e le dure schermaglie, Frank alla fine aiuterà il ragazzo a non farsi cacciar fuori...

Tutto qui, un film diretto senza fronzoli, senza peculiari pregi, della bellezza di due ore e 36 min che però scorrono velocissimamente.

La vicenda infatti innegabilmente appassiona, qualche volta gira a vuoto ma Brest, ripeto, sa come strizzare astutamente l’occhio al pubblico, azzeccando comunque un paio di scene madri d’infallibile effetto.

Ma, senza Pacino e la sua forza recitativa, il film non avrebbe avuto molto senso di esistere.

La penso così.

Sbaglio, forse?

 

di Stefano Falotico

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