Regia di Rainer Werner Fassbinder vedi scheda film
Un film davvero singolare che ha nell’ambiguità il proprio punto di forza e che richiede particolare attenzione per poter essere compreso fino in fondo a causa dell’aggrovigliata, apparente confusione dei piani narrativi che mischiano le cose quasi inestricabilmente, e dove il tema della pazzia si fonde con quello dell’impostura.
Ci può essere una certa logica (…) in un film come questo che parla di un uomo che non può più sperimentare direttamente il suo mondo, e sente di essere diviso a tal punto che egli desidera disperatamente che un’altra identità si sviluppi in modo fondamentalmente astratto e teorico. (Roberto Chiesi)
Despair – Eine Reize ins Licht (la cui traduzione letteraria è “Disperazione – In viaggio nella luce”) fu realizzato da Fassbinder fra Aprile e Giugno del 1977 (e si colloca di conseguenza fra la registrazione della commedia da lui diretta per la televisione Frauen in New York (versione tedesca di “The Women” di Clare Both che è poi il testo che sta alla base di “Donne” girato nel 1939 da George Cukor e di “Sesso debole” remake a colori e in Cinemascope realizzato da David Miller nel 1956) e l’episodio autobiografico girato per il film collettivo Germania in autunno).
Il film è dedicato a Antonin Artaud, Vincent Van Gogh e a una sua cara amica, Unica Zürn, anch’essa, come Artaud e Van Gogh, morta suicida (il film è dedicato a queste tre figure – scrisse Fassbinder stesso – perché tutte e tre furono persone felici nella loro pazzia, almeno fino al momento del suicidio. Non posso saperlo con certezza, ma credo che nella loro pazzia abbiano vissuto una loro utopia tutta personale. Il mio Hermann Hermann è libero. Egli sceglie. Artaud e Van Gogh fecero altrettanto? Non lo so, e non c’è modo di poterlo sapere con certezza. Posso solo immaginarlo, fare delle ipotesi): parole davvero molto significative e importanti che lasciano intravedere una sincera fascinazione per quel gesto estremo e che lette a posteriori possono a mio avviso assumereil senso di una lugubre premonizione, quasi una specie di annuncio programmatico della sua altrettanto prematura dipartita per “abuso di stupefacenti” (e quindi a tutti gli effetti un “suicidio”, che sia stato intenzionale o meno, non fa poi molta differenza, credo), avvenuta il 10 giugno del 1982 nella sua casa di Monaco dove fu rinvenuto il suo cadavere ormai privo di vita.
Despair (primo film da lui girato in inglese) è comunque una tappa molto importante per la sua evoluzione artistica, poiché si può ben dire che cominciò proprio da lì la terza fase della sua carriera (dove si faranno ancora più stretti fino a diventare quasi indissolubili, i suoi “legami” con il cinema di Douglas Sirk), che è poi quella in cui (se si escludono In Einem Jahr mit 13 Monden / Un anno con 13 lune del 1978 e Die Dritte Generation / La terza generazione del 1979, di nuovo girati a basso costo e in tempi brevissimi per un bisogno più personale e privato di stigmatizzare certe storture – ideologiche e comportamentali - del presente in cui si trovava a vivere) proverà ad “imitare” (passatemi il termine) lo stile di Hollywood, cosa resa possibile proprio da un più elevato impegno economico delle produzioni, ma senza mai correre il rischio nonostante l’opulenza dei finanziamenti, di piegarsi alle degenerazioni commerciali di quel sistema, che verranno da lui semmai profondamente demistificate con acido spirito critico, grazie alle sue riletture anche oppositive degli stilemi e dei topoi presenti in quel modo un po’ “artefatto” di intendere il cinema.
Nell’immediato però non fu un successo: a Cannes nel 1978, fu accolto infatti con una certa freddezza e in Italia non sarebbe forse nemmeno mai arrivato se non fosse stato per il clamoroso successo de Il matrimonio di Maria Braun, poiché soltanto nel 1982 (ben quattro anni dopo il suo discusso passaggio sulla Croisette) fu sdoganò per il nostro mercato interno (acquistato per altro da un piccolo distributore indipendente che in prima battuta riuscì a piazzarlo solo in due città) mischiato nella pletora di titoli della sua precedente produzione che – come era già accaduto con Bergman in anni precedenti – in poco più di un trienni furono immessi sul mercato disordinatamente e in ordine sparso, e quindi senza alcun rispetto cronologico, il che non aiutò sicuramente la comprensione anche da parte della critica, di un film complesso (e inusuale) come questo.
Per fortuna è cresciuto molto alla distanza, poiché nell’immediato fu davvero criticato oltre il dovuto (il Morandini ne parla impietosamente ancora oggi come di “un film nato morto (…) di un esempio di cattivo teatro dell’assurdo dal formalismo baroccheggiante, tedioso nel suo intellettualismo e affliggente nel suo gelido grottesco” e anche il tutto sommato più indulgente Mereghetti, lo definisce comunque “freddo e cervellotico”).
Probabilmente la critica (non solo quella italiana) ancora poco abituata a simili “contaminazioni”e incapace di comprenderne persino l’evoluzione stilistica (si parlò spesso e a sproposito persino di una mal riuscita e troppo pretenziosa “scimmiottazione” del Resnais di Providence) rimase sconcertata da quel suo continuo passare dalla soggettività all’oggettività, anche se quello che la disturbò maggiormente fu proprio il sarcasmo glaciale, tutt’altro che liberatorio che pervade tutta la pellicola, e che a mio modesto giudizio fa invece di Despair un’opera davvero singolare (e anche innovativa) che indubbiamente richiede un’attenzione spasmodica per essere sviscerata e compresa fino in fondo nella sua articolata problematicità, a causa dell’aggrovigliata, apparente confusione dei piani narrativi che mischiano le cose quasi inestricabilmente, e dove il tema della pazzia si fonde con quello dell’impostura.
Un film insomma che ha proprio nell’ambiguità il proprio punto di forza, una qualità che il tempo ha portato in assoluto primo piano spostando in positivo il giudizio critico di molti detrattori che avevano espresso anche semplicemente qualche perplessità nell’immediato, a partire da quello di due apprezzati nomi come Wilhelm Roth e Thomas Elsaesser.
Si può allora ben definire come una pellicola sullo sdoppiamento della personalità nemmeno tanto anomala rispetto alla precedente produzione del regista, poichè riprende e sviluppa alcune delle problematiche già trattate in un suo precedente lavoro altrettanto disturbante (Stansbraten / Nessuna festa per la morte del cane di Satana).
La storia è quella di un emigrato russo che gestisce in Germania una fabbrica di cioccolato ed è sposato con Lydia, una donna attraente e sciocca (ma la necessaria sintesi che ne faccio aiuta davvero molto poco rappresentare la complessità della sua rappresentazione filmica).
Ambientata durante la profonda crisi economica dei primi anni ’30 del secolo scorso che attanagliava un paese dove da lì a poco sarebbe salito al potere il nazismo, la pellicola mette in scena la folle parabola di un uomo che in seguito a una profonda crisi (esistenziale e di lavoro) decide di sdoppiarsi, uscire da se stesso e assumere l’identità di un’altra persona (una tematica che indirettamente rimanda al tempo stesso a Stevenson e a Pirandello, ma se vogliamo, persino a Dostoevskij proprio nel trasformare il film in un viaggio fra i doppi, in cui il gioco delle immagini spesso rifrangenti, è fondamentale per confondere - anche nella percezione dello spettatore - le visioni folli del protagonista con quelle della realtà del quotidiano.
L’uomo, le cui facoltà mentali sono ormai annebbiate, crede di aver trovato una specie di “controfigura” in cui traslarsi, nella persona di Felix Weber, un vagabondo incontrato casualmente che ritiene essere il suo sosia perfetto (anche se fisicamente non gli somiglia affatto).
Nonostante ciò, il piano di Hermann va avanti (come la sua follia): si incontra di nuovo con Weber in un bosco, scambia con lui i vestiti, e poi lo uccide a sangue freddo, credendo così di essersi liberato del suo passato e di potersi rigenerare in una nuova vita. Si rifugia in Svizzera, ricontatta la moglie e tenta di ricomporre un differente futuro più positivo e certo… ma non sarà proprio così che andranno poi a finire le cose e il lieto fine è tutt’altro che assicurato.
In Despair è di straordinaria rilevanza l’utilizzo che Fassbinder fa di una cinepresa particolarmente mobile che con i suoi movimenti sinuosamente avvolgenti, riesce ad infiltrarsi nelle pieghe degli spazi eleganti e claustrofobici dell’appartamento del protagonista e che con le sue labirintiche carrellate sembra volersi incuneare con altrettanta determinazione analitica, anche all’interno della sua mente per esplorarne le latenti pulsioni, il che contribuisce a creare un vero e proprio parallelo (visivo) fra la progressiva follia (o presunta tale) dell’uomo e gli ambienti in penombra della casa che sembrano inibire ogni via di fuga, fra la vacuità e il decorativismo del suo stile di vita e quello dell’ambiente in cui vive e si muove, il tutto costantemente ribadito (quasi amplificato) dalla speciale, particolarissima specificità degli oggetti di cui si circonda e che insieme al mobilio, arredano l’appartamento, a partire dalla proliferazione incontrollata degli elementi déco che caratterizzano ogni cosa, fino a diventare il fattore assolutamente distintivo di questa straordinaria ricognizione storica fatta da Fassbinder e dai suoi collaboratori utilizzando un patrimonio di oggetti che sembrano provenire dalla Deutsche Werkbund di Hermann Muthesius. Il tutto, sempre ripreso filtrato dalle cornici che lo “inquadrano” e “disturbato” dagli ostacoli di porte spesso semichiuse, o riverberato dagli specchi e dalle vetrate che moltiplicano e falsano le prospettive. La presenza continua di paraventi, lampade, vetrerie di Wagenfeld, bronzetti, ecc. ha qui dunque non solo una funzione che si potrebbe definire drammaturgica (oltre che semplicemente decorativa) poiché è attraverso di essi che si delimitano gli spazi dell’azione, si spezzano i movimenti, si creano percorsi obbligati, visto che assumono anche un valore premonitore (che si esemplifica per esempio attraverso la frequente iterazione dei gesti), rispetto a quelli che saranno gli sviluppi dell'asse narrativo (il pannello decorativo con paesaggio innevato che campeggia nella sala da tè, che diventerà spazio reale dell'impossibile fuga conclusiva di Hermann).
Non solo nel “visivo” però stanno i pregi (che sono comunque enormi) di una pellicola che come ho già detto, si conferma fondamentale nel percorso artistico del suo autore, anche semplicemente nell’essere esteticamente superiore a quasi tutti i film che aveva realizzato precedentemente.
Pur considerando infatti che si tratta di un film che sostanzialmente parla (e porta in primo piano) i problemi di identità di una singola figura, il racconto ha anche una sua dimensione che affonda le radici nel sociale (la crisi economica e mondiale appunto, che - in mancanza di una impossibile soluzione alternativa – sta alla base del probabile fallimento che sembra voler colpire la fabbrica di cioccolato gestita da Hermann, che è poi l’avvenimento che innesca la scintilla della storia, e dove anche l’ascesa del nazismo e la sua imminente presa del potere, rappresentano una significativa metafora del reale). A tal proposito è importante soffermarsi sulle “figure color cioccolato” prodotte in serie dall’azienda che sembrano replicarsi all’infinito, simbolo evidente del pericolo di quel vicino attentato alla democrazia, simili come sono alle altrettante “marionette meccaniche vestite di marrone” ben più pericolosamente concrete e perniciose, che si stanno già moltiplicano per le strade “opacizzando” sempre più le coscienze di un intero popolo): il nazionalsocialismo e le sue devastanti conseguenze politiche, insomma che si riflettono specularmene in quello che si può ben definire come il crollo di identità di Hermann, il tutto magistralmente ed esplicitamente evidenziato da Fassbinder con un distacco ferocemente sarcastico e una continua, angosciosa aleatorietà, che sembra volere suggerire di non poter nemmeno escludere l’ipotesi che il tentativo del nostro protagonista di traslarsi in una differente “figura” sia in effetti l’espressione di un’inconscia pulsione di morte di un uomo che con i suoi costanti tentativi di fuga da se stesso, arriva sempre in un vicolo cieco e senza sbocco.
Forse allora è proprio vero (e cito ancora Roberto Chiesi), che all’atto pratico, alla fine “Herman non ha assunto l’identità del vagabondo come avviene di solito nelle storie di ‘doppi’, ma è semplicemente scivolato nell’illusione di dominare (e manovrare come un burattino) i fili di un reale che ha perduto.
Quando gli fu proposto, Despair sembrava per Fassbinder un’ottima occasione per imporre finalmente il suo nome su scala internazionale e ben oltre la ristretta cerchia dei frequentatori dei festival a cui aveva già partecipato con sufficiente attenzione. La sua fama infatti era ancora abbastanza elitaria fuori dalla sua terra d’origine (dove nonostante la sua giovane età aveva già raggiunto una notevole notorietà segnata anche da un alone “scandalistico” dovuto alle tematiche tutt’altro che convenzionali delle sue opere, grazie a una trentina di regie fra cinema e televisione)
I potenziali elementi per un’affermazione planetaria c’erano tutti, a partire proprio dall’alto budget messogli a disposizione da una coproduzione internazionale e da un cast di tutto rispetto che poteva contare per il ruolo del protagonista su un attore famoso e prestigioso come Dirk Bogarde che da solo avrebbe potuto garantire la massiccia distribuzione sia in Europa che in America, senza dimenticare poi che si trattava di un’opera sceneggiata da un noto drammaturgo come Tom Stoppard che traeva per altro origine da un romanzo di Vladimir Nabokov (il discusso autore di Lolita, uno dei più clamorosi “casi” letterari del novecento)[1].
Non fu però così che andarono le cose, come ho già detto, e la cosa ferì in modo particolare proprio Dirk Bogarde che sembra tenesse molto al film, e che attribuì una parte della responsabilità di quell’inaspettato insuccesso, al montaggio definitivo dell’opera da lui poco apprezzato, poiché gli sembrò che per come era stato organizzato, avesse finito per cancellare il carattere di sarcastica commedia coniugale che il film possedeva invece in una precedente versione poi riveduta[2].
Rispetto al libro di Nabokov (dove per altro tutto era narrato in prima persona dal protagonista, compresa la sua progressiva discesa nella follia) ci sono già molte variazioni nella sceneggiatura di Stoppard, ulteriormente amplificate dalla visione definitiva di Fassbinder spesso in contrasto anche con il commediografo proprio in relazione alla differente interpretazione da dare alla scissione dell’ego del protagonista che nel film viene esaminata dall’esterno, con una lucidità davvero sorprendente che elimina ogni possibile identificazione empatica (che invece inevitabilmente c’è nel libro) attraverso una osservazione straniata del rinchiudersi “coscientemente” dell’uomo dentro le proprie ossessioni che daranno origine al suo delirante progetto di fuga dalla realtà, fatta con adeguato distacco “critico” (significativa la scena in cui Hermann sta cercando di fare l’amore con sua moglie, ma è allo stesso tempo anche seduto su una sedia a “scrutare” la scena dall’esterno).
Se da una parte infatti Stoppard nella sua sceneggiatura aveva immaginato che Hermann e il suo “doppio” Felix fossero interpretati dallo stesso attore, il regista fu invece categorico nell’imporre da subito due differenti interpreti e rendere così immediatamente visibile l’inequivocabile diversità anche fisiognomica fra i due (Hermann/Dirk Bogarde e Felix/Klaus Löwitsch infatti non si somigliano nemmeno vagamente) proprio al fine di seminare dei dubbi persino sulla follia del suo protagonista che più che pazzo sembra invece essere assorbito da un progetto autodistruttivo e suicida.
Fassbinder pone prepotentemente l’accento su questa “divergenza” proprio nel collocare il primo incontro fra i due nel dedalo degli specchi di un luna-park (è lì che i due si incontrano casualmente e sembrano persino quasi cercarsi, ma senza mai porsi specularmene l’uno di fronte all’altro, come se il regista volesse ribadire con assoluta determinazione che Felix non è una creazione mentale del protagonista, ma una realtà esterna interdipendente, un posizionamento di pensiero ribattuta anche dal fatto che la contrapposizione delle due figure viene sempre realizzata per “stacco” e mai per “dissolvenza”).
Analogamente al personaggio di Nabokov invece, anche l’Hermann di Fassbinder che nel film assume il nome raddoppiato di Hermann Hermann (il riferimento all’Humbert Humbert di Lolita è dunque esplicito anche nel richiamare un evidente “parallelo”) nel vano tentativo di non farsi schiacciare dal reale, rifiuta di accorgersi persino che la moglie lo tradisce con un sedicente cugino nulla facente o quasi.
Fra analogie e divergenze, ancora secondo Chiesi (ma è un pensiero che condivido in pieno) se nel romanzo Nabokov alludeva spesso al cinema, adombrando in particolare la figura del doppio cara all’espressionismo, anche Fassbinder gioca con gli echi dei film evocati dalla presenza di Bogarde (in particolare i film di Losey e di Visconti) e il gioco metacinematografico si accentua nel finale: nelle pagine di Nabokov, ormai rintracciato dalla polizia in un paesino di montagna, Hermann parla di sé come se fosse “un famoso attore cinematografico”; nel film invece, quando è circondato dai poliziotti, agisce come un regista che ordina di non guardare in macchina ed è una differenza davvero sostanziale.
In questa prospettiva dunque si può allora dire infatti che per Fassbinder Hermann ha provato a mettere in scena la sua vita (scambiando la realtà con l’utopia e confondendo la follia con la normalità) come se si trattasse di un film da lui diretto e solo indirettamente interpretato.
Per concludere, da ricordare all’attivo di un film assolutamente da rivalutare, la straordinaria prova dei suoi interpreti, prima fra tutti quella del più che eccellente Dirk Bogarde in un ruolo che gli sta davvero a pennello e che ha disegnato con una varietà di toni e una ambiguità di fondo davvero impressionante, e subito dopo, quella di un’altrettanto superlativa Andréa Ferréol nel difficile, “vacuo” ruolo di sua moglie.
Aggiungiamo ancora la suggestiva fotografia di Michael Balhaus che ben valorizza le interessanti, “necessarie” scenografie di Rolf Zehethauer in parte basate su quelle allestite per L’uovo del serpente di Ingmar Bergman – e non è certamente un caso, né tantomeno un “vezzo”, ma bensì un voluto, ricercato ed esplicito riferimento che rimanda all’analogo, angosciante clima delle due opere.
[1] A tale riguardo devo ricordare che il libro di Nabokov al quale il film fa riferimento è Otcajanie - Despair appunto, pubblicato inizialmente in russo (alcune fonti dicono nel 1934, altre nel 1936), quindi tradotto in inglese dallo stesso scrittore pochi mesi dopo e successivamente in Germania e Francia (ma anche un romanzo che a distanza di trent’anni Nabokov decise di riscrivere ripubblicandolo poi nella nuova, definitiva stesura), e non Laughter in the Dark [Risata nel buio] che aveva scritto invece nel 1932 e che non ha nulla a che vedere con quest’opera anche per quel che riguarda la storia, visto che è quella del tragico, impossibile amore di un cieco per una giovane e perfida ragazza (una ninfetta che ha un’età maggiore di soli due anni rispetto a quella di Lolita) che invece in alcune schede critiche come quella del Morandini risulta come il riferimento letterario da cui ha preso le mosse la sceneggiatura di Stoppard. Una confusione che ha dunque coinvolto anche alcuni illustri nomi della critica forse dovuta a ciò che aveva scritto Enzo Ungari nella pubblicazione “celebrativa” uscita a vent’anni dalla morte del regista a cura di Andrea Vannini e editata dalla “Bottega del cinema di Firenze” nella collana I quaderni della cineteca di Firenze che, per ricordare lo stretto “legame” dialettico fra il cinema di Sirk e quello del regista tedesco, aveva preso a pretesto proprio Nabokov e il suo Laughter in the Dark: “Chi ama Vladimir Nabokov e conosce Risata nel buio (un progetto di Douglas Sirk bocciato dal codice Hays e realizzato molti anni dopo dall’inetto Tony Richardson : In fondo al buiodel 1968, un vero fallimento nonostante la sceneggiatura scritta daEdward Bonde l’interessante presenza nel cast di Anna Karina in un ruolo decisamente inconsueto nella sua filmografia). La storia dell’amore impossibile di un cieco per una donna raccontata in quel romanzo, dispone di una formidabile chiave di lettura per capire che cosa, del cinema di Sirk, si sia travasato, sotto forma di distillato, velenoso e penetrante, nei film di Fassbinder. Poco importa che il cinema di Sirk rimedi, in virtù di uno stile e di una forma definitivi, all’improbabilità dei plot più incongrui, mentre i film di Fassbinder sono, nella stragrande maggioranza, sfigurati da una sciattezza ansiosa e da una rapidità di esecuzione che invocano (come nel caso di Godard ma con meno chances) un giudizio di appello che prenda in esame l’insieme dell’opera piuttosto che le sue singole componenti l il cinema invece del film) .
[2] Il disagio dell’attore rispetto al risultato finale viene evidenziato nel suo libro di memorie An Orderly Man, ma si avverte anche leggendo l’epistolario Ever, Dirk, the Bogarde Letter curato da John Coldstream
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