Regia di Rainer Werner Fassbinder vedi scheda film
Gioco labirintico e obliquamente metalinguistico, Despair è, come recita il sottotitolo, Eine Reise ins Licht (un viaggio nella luce), che, se non fraintendo, dovrebbe essere un riferimento all'essenza materiale del cinema, ciò intorno a cui ruota la sceneggiatura di Tom Stoppard tratta da un romanzo di Vladimir Nabokov. Tutto è costruito sull'ossessione del protagonista per il doppio, inteso come rappresentazione del proprio egocentrismo, la dissociazione del proprio io e della realtà a sua volta in crisi politica ed economica (i primi anni '30 a Berlino...). Copia di sé fin dal nome, Hermann Hermann (D. Bogarde, come l'Humbert Humbert/James Mason di Lolita) rivive la proiezione dell'atto sessuale con la moglie formosa e un po' locca (A. Ferréol) come fosse al cinema, dove appunto vede un film sullo scontro mortale di due fratelli gemelli (uno poliziotto, l'altro delinquente: Armin Meier) da cui prenderà ispirazione per risolvere i suoi problemi, sia psicologici e narcisistici che economici: incontrato un suo sosia (K. Lowitsch), cercherà di farlo passare per suo fratello e una volta ucciso scapperà in Svizzera aspettando la moglie con l'assicurazione.
Giochi psicologici dominati, come si diceva, dall'ossessione per la propria esistenza sradicata (Hermann è un russo in Germania), talmente desideroso di immedesimarsi in un doppio reale da non rendersi conto che l'uomo scelto per il ruolo gli assomiglia solo approssimativamente: la corporatura può andare, ma già il volto ha lineamenti distinguibili, pur nella somiglianza della forma, per non dire delle differenze di portamento e d'essenza (e bisogna dire a questo punto che forse l'amor proprio ravvisa sintomi di sotterranea attrazione anche per la sua "controfigura"). La messinscena pirandelliana di Hermann tira troppo la corda, non distingue tra finzione alla Il fu Mattia Pascal e logica della realtà, il trucco è smascherato in breve, crede di aver commesso il delitto perfetto perché non è capace di vedere veramente, nemmeno l'immagine riflessa dallo specchio rivela, ma è un mezzo ambiguo che non fa altro che confondere il mondo: può essere l'esatta riflessione oggettiva ma anche un simulacro ingannatore se non riflesso ulteriormente dal pensiero che percepisce, o un mezzo che separa i rapporti tramite vetrate (che siano rapporti tra personaggi o tra loro e il pubblico del film), superfici che delimitano gli ambienti e rifrangono le immagini anche nel sogno. Alla fine, braccato dalla polizia, Hermann, rassegnato e forse ormai consapevole della ragnatela da cui è avvolto, non può che continuare a fingere incitando a non guardare verso la macchina da presa perché lui è un attore, unico tentativo rimasto per provare a redimersi.
R. W. Fassbinder si affida fedelmente al lavoro di Tom Stoppard, stando a quanto si dice (in seguito regista di Rosencrantz e Guildenstern sono morti, film ancor più metalinguistico), usufruisce di un budget consistente e di un cast internazionale di primissimo livello, senza però perdere la mano del suo stile e delle sue visioni. La narrazione è qua e là un po' faticosa, tuttavia il risultato è ancora molto affascinate e di tutto rispetto. Tra la critica professionista è considerato idealmente come parte di una trilogia anti borghese, con Nessuna festa per la morte del cane di Satana e Roulette cinese. V. Spengler, attore comune a tutte e tre le pellicole, fa la parte dell'amante. 8
Peer Raben a sua volta gioca con melodie sinuose e vagamente malinconiche, dai timbri eleganti e a volte ironicamente cristallini.
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