Regia di Vittorio De Sica vedi scheda film
Un dramma splendido di De Sica, un classico pugno allo stomaco della commedia all’italiana. È soprattutto un attacco al capitalismo, con il pregio che si trattava del momento in cui era più difficile farlo, e più opportuno Soprattutto, c’è tutta la doverosa denuncia dell’attaccamento alla ricchezza, e dell’avidità.
Il momento, il ’62, era tra i meno adatti: come il film documenta, il cosiddetto “boom” mostrava i suoi aspetto positivi ormai da qualche anno. De Sica ebbe il coraggio di questa “favola nera”, benissimo scritta da Zavattini, in cui il motto “mi costa un occhio della testa” diventa realtà non così lontana da vari fatti di cronaca attuale, come di chi si fa fratturare delle ossa per truffare l’Inps o l’assicurazione, specie nel sud Italia.
Più che altro tale motto diventa metafora della perdita totale della coscienza e della felicità, in nome del profitto. Sordi “ha venduto l’anima al diavolo”, come si dice: e ha perso ogni felicità, come lui stesso magistralmente fa vedere, nelle sue inquietudini, nelle sue ossessioni, nella sua tristezza che non riesce più a contenere, e neppure a nascondere, pur in un mondo di apparenza e menzogne, come quello della (inopportunamente chiamata) “alta società”. L’ambiente romano è quello della “Dolce vita” di tre ani prima, di cui tratteggia con non minor finezza le contraddizioni, ovvero gli errori e le falsità.
Falsità di un sistema sociale che eleva a oggetto d’invidia una minoranza ricca e ladra: tale falsità viene bene a galla, e non può più essere tenuta nascosta, quando il protagonista è più libero per il (millantato) successo economico, Ciò gli permette di liberarsi, anche se nel modo sbagliato. Infatti si ubriaca, ma almeno in quell’eccesso penoso e ridicolo dice la verità, dice molte più verità di quelle che prima erano circolate in quel consorzio di ricchi umanamente squallido.
Alla fine tutto è solo competizione, e lo può dire perché ha più soldi degli altri, perché la competizione per la prima volta non la sta perdendo, ma la sta vincendo. Altri che offende con la cafoneria del parvenu della borgata, che però non è meno volgare di quella del rampollo di una dinastia arricchita da secoli.
Ossessionato dal terrore di esser considerato nessuno (nomea che comunque tutti poi gli riconoscono), cerca di essere “qualcuno” con i soldi: la pura apparenza, il puro giudizio altrui, lo dominano, all’altezza di un grande personaggio verghiano. «Non posso dire a mia moglie: eh no, quest’anno a Natale non si va a Cortina, devi accontentarti della tombola con i parenti. Non le posso dire: quest’anno non puoi rifarti il guardaroba». In nome di questi valori, o meglio disvalori, è condizionata tutta una esistenza, e in negativo.
Asciutta la sceneggiatura, splendida la musica di Piccioni, il film corre veloce, impreziosito da vari comprimari di livello, tra cui spicca una grande Elena Nicolai, mezzosoprano prestata al cinema, qui dotata di magnetismo unico.
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