Regia di Pietro Germi vedi scheda film
Quando un tempo le migrazioni di massa riguardavano noi italiani direttamente, quando gli “africani” eravamo noi, per circa 100 anni dall’unità del paese, quindi dal 1861 sino alla fine degli anni 50’, con l’avvento del boom economico.
La miseria in cui versava l’Italia dopo la seconda guerra mondiale, obbligava molti compatrioti a cercare fortuna all’estero, la Francia era una delle mete ambite, ma arrivarci non era certo facile. Ci si doveva affidare a sedicenti guide, simili agli scafisti odierni, che privavano i migranti di ogni bene assicurando un viaggio sicuro, ma in realtà era una vera e propria odissea tra autobus sgangherati, treni, camion stracarichi per poi giungere ai piedi delle Alpi, dove tra molte avversità ci si doveva avventurare tra vette altissime, temperature proibitive e sentieri impervi, con la speranza di sfuggire alle pattuglie doganali. Se tutto andava bene, si arrivava sani e salvi dall’altra parte del confine, dove però l’accoglienza non era certo delle migliori, tra addetti al cambio valuta che truffavano sul cambio lira-franco e disagi vari a cui si aggiungevano, le molte discriminazioni a cui i nostri connazionali erano sottoposti.
Pietro Germi, come molti registi nostrani, si fece le ossa sui set, muovendosi tra mansioni di aiuto regista e sceneggiatore, debuttando in cabina di regia con pellicole di impegno civile, che cercavano di aderire ai canoni del movimento neorealista, in cui era innestata una forte componente sentimentale, spesso etichettata spregiativamente dai critici come “buonismo nazional-popolare”.
Il Cammino della Speranza (1950), condensa pregi, difetti e virtù del cinema di Germi, tramite un dramma sull’emigrazione di minatori siciliani, costretti a lasciare l’isola, in cerca di fortuna in Francia, causa chiusura della miniera di zolfo in cui lavoravano.
Il primo atto della pellicola, risulta essere tra le cose migliori mai girate dal regista, capace di descrivere la miseria nera dei minatori, che hanno occupato la miniera, per impedirne la chiusura imminente. Le carrellate della macchina da presa, seguono la carrucola sulle rotaie, nel salire e scendere da e verso il buio delle profondità della cava mineraria, nella quale si sono rinchiusi i lavoratori da tre giorni, resistendo a condizioni inumane, pur di tentarle, vanamente, tutte.
La Sicilia del dopoguerra, è un luogo privo di opportunità, non c’è futuro, se non fame e povertà. Per Saro Cammarata (Raf Vallone), minatore veterano, padre di tre figli e vedovo, la chiusura dell’attività lavorativa significa morte sicura, così decide di vendere tutti i suoi averi, racimolando le 20.000 lire necessarie a pagare una sedicente guida (Saro Urzì), che ha promesso loro un viaggio sicuro in Francia ed un lavoro oltre confine. L’addio al paese natio è straziante, intriso di una tetra poeticità malinconica, ma Germi, ha la mano ferma di chi stoicamente denuncia la costrizione all’abbandono, senza mai scadere in un facile patetismo, perché si rimane su un piano emotivo prettamente intimo in merito alla sofferenza dei personaggi.
A questo viaggio della speranza, si uniscono una ventina di compaesani, tra cui una giovane coppia di neo-sposi Luca e Rosa, l’ostracizzata Barbara (Elena Varzi) ed il suo fidanzato Vanni (Franco Navarra), un individuo dedito ad attività illecite, la cui pessima reputazione, ha gettato grande discredito pure sulla sua amante, con la quale sembra avere un rapporto possessivo-abusivo.
Il viaggio assume immediatamente i tratti di un’odissea massacrante, attraverso vari e fortunosi mezzi di trasporto, in un'ascesa da sud verso nord, che ricorda strutturalmente Paisà di Roberto Rossellini (1946). A tali difficoltà, si aggiunge un’amarissima scoperta; la loro guida, oltre ad essere uno squallido trafficante di esseri umani, risulta pure un truffatore, che abbandona i nostri al loro destino, scappando con tutti i soldi, lasciandoli alla deriva senza speranza.
A Roma accade la prima divergenza, alcuni personaggi si perderanno definitivamente nella caotica e moderna capitale del paese, un luogo ad alta velocità, che ingenera confusione in molti dei siciliani, che in vita loro, non sono mai andati oltre la realtà dei piccoli paesi natii situati nella loro isola.
Le inquadrature oblique dei mezzi di trasporti, unite a un montaggio serrato e tagliente, trasmette lo spaesamento innanzi ad una modernità improvvisamente catapultatagli addosso, in cui è impossibile mantenere legami unitari. Saro, non ci sta, piuttosto che ritornare indietro verso il nulla, decide di proseguire il viaggio, assieme ad altri compagni, rischiando il tutto e per tutto.
In questo contesto, avviene la seconda divergenza, ma stavolta di tipo qualitativo, poiché la pellicola lascia soccombere lo stile neorealista e la povertà rabbiosa, a favore di una narrazione sempre più melodrammatica, dove le componenti di denuncia civile – sfruttamento lavorativo nelle campagne dell’Emilia Romagna, discriminazioni razziali (l’eterno “evergreen” terroni) e le agitazioni sindacali, si stemperano nel bozzettismo macchiettistico dei personaggi secondari e nella ridondanza di una sceneggiatura, che gira su una relazione tra Saro e l’ostracizzata Barbara, sempre più marcata.
Il melodramma puro prevale su uno stile sobrio, poetico e rigoroso, dando largo spazio ad un folklorismo d’attacco nella rivalità inevitabile di Saro contro Vanni, per l’amore di Barbara, con tanto di teatrale e caricato confronto-scontro all’arma bianca, tra la neve delle Alpi, lottando per salvare l’integrità del proprio onore, in un coacervo di stereotipi siciliani, mescolati ad un’improvvisa risoluzione in stile thriller all’americana di dubbia fattura, che in finisce con il lasciare molto delusi, viste le ben più alte ambizioni e potenzialità di partenza, le cui immagini tetre intrise di una forte manifestazione malinconica, lasciavano sperare ben altri sviluppi.
Un film di passaggio, dove il neorealismo più autentico finisce con lo sfumare in un melodramma nazional popolare, dalla conclusione che lascia spazio ad un ottimismo umanista, eccessivamente iper-semplificando, aderendo il tema all’indubbio fascino del divo protagonista Raf Vallone, con la sua muscolosità proletaria e al viso tenebroso di Elena Varzì, finendo con lasciare in disparte le facce più autentiche di stampo neorealista.
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