Regia di Phil Alden Robinson vedi scheda film
Il motore del film è evidente: la ricerca del tempo perduto incarnato dalla figura rimossa del padre ad opera di un figlio che ha goduto della sua presenza per poco e male (non si sono capiti, come molti padri e figli, specialmente negli anni sessanta). Sente una voce perentoria ed evocativa (“Se costruisci, lui tornerà”) e distrugge la piantagione di mais per realizzare un campo da baseball. Per far cosa? È una storia fantastica ed estremamente metaforica che corre sul filo dell’assurdo raggiungendo non di rado le vette del sublime: col tocco elegante e rassicurante della migliore tradizione hollywoodiana, Phil Alden Robinson costruisce uno degli ultimi classici possibili mettendo in scena il racconto di un uomo che viene considerato matto da tutti perché parla con personaggi invisibili agli altri (Harvey in tv è una citazione più che lampante, anche per l’atmosfera da vecchio cinema), ma che in cuor suo è mosso da un’esigenza profonda, giustificata, sentimentale.
Proprio questa è una delle parole chiave del film: niente vergogna per i sentimenti nell’epoca del profitto (il cognato avido) e del bigottismo (la riunione a scuola con rigurgiti nazisti). È una celebrazione del (risveglio dal) sogno americano meno traumatico di come siamo stati abituati, della necessità dei sogni anche quando tutti ci vanno contro reputandoci perfetti idioti. Parlare della trama è sciocco, perché è un film che si scopre lentamente con un piacere quasi infantile. Kevin Costner è l’unico protagonista possibile nella più bella delle sue interpretazioni, e offre non pochi guizzi, specie in duetto con uno splendido James Earl Jones, che interpreta da par suo un uomo malinconico nel secondo tempo della vita. C’è anche l’immenso Burt Lancaster in un ruolo che più metaforico non si può. Un film pressoché perfetto nel suo genere, americanissmo e universale al contempo, nostalgico e struggente.
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