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La signora di Shanghai

Regia di Orson Welles vedi scheda film

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La recensione su La signora di Shanghai

di ROTOTOM
8 stelle

Ritratto della borghesia in nero anzi in noir, con omicidio. Orson Welles scrive dirige e interpreta un secco e decadente atto di morte lancinato da un bianco e nero che degrada sempre di più verso il torbido, mischiando sfumature, ombre e tagli di luce in un unico impastato dolore. Mike (Welles) marinaio dal dubbio passato e dall’incerto futuro ha la sventura di salvare la vita alla bella e fatale Elsa (Hayworth, bionda quasi irriconoscibile) nativa di Shanghai, annoiata donna di mondo che come ricompensa lo attira a bordo del lussuoso yacht di proprietà del ricco e cinico marito, un famoso avvocato, storpio e più anziano. Qui lo attende la più classica delle trappole, fatta di amore vero o presunto, denaro e ricatti, nell’inevitabilità del male della natura umana, nel lento scivolare verso un finale di morte che si avverte tale fin dall’inizio e dal quale non ci si può sottrarre, così attratto l’uomo dall’abisso da doverne saggiare coscientemente il fondo prima di provare a risalire. Il marinaio che riluttante si avvicina e si accasa nella “famiglia” ricca è il particolare che spiega la regola generale, in quel micromondo disperso nell’oceano si svolge la consueta lotta di classe in cui il ricco e borghese sfrutta e cerca di annientare con il suo potere chi sta sotto di lui, mentre egli come un pesce in trappola si dibatte in cerca di fuga. E mai metafora fu più azzeccata, alla luce dello splendido monologo di Mike sugli squali che eccitati dal sangue arrivano a divorarsi l’un l’altro, a volte a mordere loro stessi, nello spiegare la sua visione del mondo borghese. Il tutto durante un “scampagnata” notturna, un pic nic marino in cui piroghe illuminate da torce compiono strane volute sull’acqua mettendo quasi in scena la solenne processione di un funerale. Come ogni personaggio mette in scena una propria parte fatta di ambiguità e mortale doppiezza coinvolgendo Mike in una spirale di allucinato onirismo dal quale non sarà più possibile liberarsi. Mike deve uccidere Grisby, il socio dell’avvocato (nome che dovrebbe mettere in guardia, per la sua letteraria natura criminale) per fuggire con Elsa coi soldi della ricompensa, ma qualcosa va storto ed egli si trova invischiato in un mondo molto più potente di lui in cui nessuno è in realtà ciò che aveva dimostrato di essere. L’identità è la chiave di volta del giallo, come gli squali esaltati dall’odore del sangue non sanno più riconoscere prede e predatori da addirittura loro stessi, l’identità degli uomini di potere viene stravolta e ridefinita all’occorrenza, frantumata e ricomposta alla bisogna, senza più alcuna parvenza di umana stabilità psichica il processo di disgregazione raggiunge limiti parossistici durante il dibattimento processuale di Mike in cui l’avvocato che lo difende in realtà lo vuole vedere morto per vendicarsi della relazione con la moglie e arriva a salire sul banco degli imputati come testimone auto interrogato da un sé stesso grottesco e ridondante. La soluzione dell’enigma ha luogo in un luna park chiuso e spento, triste luogo di morte e di inganni più o meno innocenti, Mike in fuga viene letteralmente ingoiato dai labirintici meandri dei padiglioni, scivoli, trappole, enormi teste di drago lo avvolgono letteralmente, sottolineandone metaforicamente la natura onirica, precipitando infine al centro di una stanza di specchi in cui la famosa e splendida scena finale rappresenta il culmine di un film perfetto. Le facce e i corpi si moltiplicano, raggiunto da Elsa, omicida confessa e dal marito Mike assiste alla mattanza di tutte le identità presenti, vere e presunte. I coniugi omicidi non si riconoscono più confusi letteralmente dalla riproduzione dei corpi sugli specchi e come gli squali eccitati dal sangue cominciano a sparare su ogni lastra non identificando il bersaglio vero, il corpo altrui, la preda da sacrificare. La psiche in pezzi, in schegge in lastre di vetro recanti una parte di riflesso che si mischia indistintamente in un groviglio di follia, di identità frantumate. Mike si salva, rimane integro, come lo era all’inizio della vicenda, pur avvertendo l’odore del pericolo che l’avvicinarsi alla splendida e fatale Elsa, a lui aliena per statura sociale, avrebbe comportato, rimane sé stesso né migliore né peggiore di prima. Forse non è il miglior film di Orson Welles, accusando nella parte centrale del film in cui la trama si intreccia, una certa macchinosità e una particolare risolutezza nella chiusa finale che libera dall’accusa il protagonista con un pretesto forse un po’ tirato via. Rimane comunque un’opera fondamentale come regia e come spessore della sceneggiatura, mescolando alla classicità del triangolo amoroso una valenza sociale e psicologica di enorme fattura in cui il bianco dei tagli di luce che spezzano il nero profondo contribuiscono ad ammantare la pellicola di un’aura malsana e torbida che trascina efficacemente protagonisti (splendidi) e spettatore nel medesimo incubo.

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