Regia di Tony Scott vedi scheda film
A vent'anni dalla sua uscita, True Romance fa ancora il suo effetto, violento e adrenalinico. Sarà la sceneggiatura di Quentin Tarantino, sarà la prova attoriale di un cast stellare, ma questo film gode di un fascino immortale, un sogno cinematografico in cui sangue e sesso sono gli ingredienti principali. Senza un attimo di tregua, e con una scena memorabile dopo l'altra, il film del compianto Tony Scott scala le vette dell'imprevedibilità costruendo una vicenda ricca di una tensione mai macabra né inquietante (nonostante gli ettolitri di emoglobina) ma gioiosa, quella stessa verve che ritroveremo solo nei film di Tarantino, tanto che, se l'avesse diretto il buon Quentin, forse sarebbe stato un capolavoro di ancora maggior valore. La storia si apre e si chiude (felicemente), senza complicazioni né azzardi. Si può quindi celebrare la semplicità dell'operato di Scott, che evita sia il patinato di Miriam si sveglia a mezzanotte sia la regia da videoclip del successivo Domino, ma predilige uno sguardo ironico che gioca su un compromesso equilibrato - apparentemente inesistente, vista la frizzante sceneggiatura e l'avvincente tono narrativo -, un compromesso fra il film serio e la parodia. A dire il vero viene più da ridere che da impressionarsi (e il mondo non aveva ancora visto Pulp Fiction), non per ridicolaggini involontarie, ma perché il tono è volontariamente umoristico, quasi parodistico, appunto, senza che mai sfiori però il demenziale, e godendo di una purezza impalpabile che non si avvertiva dalla violenza cruda ma elegante di Gangster Story. Sono proprio due nuovi Bonnie e Clyde gli scatenati Christian Slater e Patricia Arquette, che scappano con una partita di droga rubata verso la California (Hollywood, Los Angeles!) per rivenderla e poter vivere felici. Non viene mai in mente di accusarli, né di criticarli, li si appoggia, e si diventa capaci di affezionarvisi. Non c'è il cinismo sfrontato dei film successivi di Tarantino, in cui non si arriverà mai a provare affetto per i suoi personaggi, ma qui questo ingrediente finto-dolciastro (il titolo originale ne è un fattore assai significativo) rende tutto più superbo ma leggero, di un cinismo ammorbidito ma lo stesso pungente ed esilarante. Se però si celebra la semplicità della trama, e si dice allo stesso tempo che diretto da Tarantino sarebbe stato ancora meglio, allora la conclusione più sincera è che una trama ancora più articolata avrebbe potuto renderlo ancora più originale, più coraggioso. Comunque un passo in avanti verso un cinema americano (quello di oggi) di cui qui e in quegli anni vediamo i promotori eccelsi e indiscutibili, proprio come Una vita al massimo.
Molte, troppe le scene mozzafiato e indimenticabili: il discorso razzista di Dennis Hopper di fronte a un Christopher Walken mafioso siciliano; il discorso via telefono fra il protagonista e il produttore trafficante, tutto giocato su una censura tutta cinefila; la caotica sparatoria finale; le sparate disorientate di un Brad Pitt qui in secondo piano, ma drogato e strafatto come poche altre volte; l'ultima inquadratura, che circonda di un velo pietoso l'intera vicenda: è il tramonto di Apocalypse Now, siamo in America e c'è la violenza, lo sappiamo. Ma ridiamoci su, non è più immorale che farci un film spettacolare.
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