Regia di Jean-Luc Godard vedi scheda film
Questo è forse il film più "americano" di Godard, come suggerisce sin dall'inizio la scelta della fotografia a colori, con cromatismi accesi che richiamano il glorioso Technicolor degli anni 50. Che Godard sia un citazionista cinefilo, si era capito sin dal suo fondamentale esordio, "Fino all'ultimo respiro". Questo "Pierrot Le Fou" è probabilmente l'opera in cui JLG è riuscito meglio a sovrapporre l'immaginario a stelle e strisce alla sensibilità critica europea. C'è tanta fascinazione per il mondo impossibile della celluloide statunitense quanto distacco, ironia, riflessione, consapevolezza. C'è Nick Ray, la sua "ribellione senza causa" e le sue coppie di anarcoidi maledetti irrequieti criminali; c'è Sam Fuller che spiega di cosa è fatto il cinema; ci sono i musical di Gene Kelly e Stanley Donen, con tanto di scalcinati ma affascinanti numeri musicali; c'è l'avventura, l'azione, le pistole, le macchine, le gang; c'è tutta la disperazione e l'eccitazione di una fuga on-the-road; c'è il melodramma. Ma c'è anche il filtro di chi il cinema, oltre ad amarlo, lo sviscera, lo fa a pezzi, lo nega; c'è lo sguardo filosofico di chi comprende i limiti del mezzo filmico, la sua "tragedia estetica", la sua incessante necessità di un confronto dialettico con le altre forme di espressione: letteratura, musica, pittura spezzano puntualmente il fluire delle immagini in movimento, rendono impossibile il dispiegarsi di un discorso poetico fatto tutto di cinema. "Il bandito delle undici" è un omaggio al cinema, al suo potere evocativo, alla sua poesia disperata, alla forza intrinseca delle sue immagini, al suo ansioso dinamismo, al magnetismo dei suoi personaggi, ma è anche una dichiarazione di impotenza, di innocenza perduta, di impurità stilistica. Se nello splendido piano-sequenza con cui, nella prima parte, Ferdinand e Marianne rievocano in un attimo i fantasmi del passato e progettano una fuga immediata da una borghesia (ripresa, ad inzio film, sempre come un'entità bidimensionale) che imbalsama ogni anelito alla libertà, Godard rivela come il cinema possa dire tanto con pochi movimenti di macchina, nella lunga digressione centrale, coi due amanti isolati e annoiati nella selva, emerge invece tutto il senso di vuoto, l'impossibilità del gesto eroico, l'incomunicabilità fra l'uomo e la donna. Ferdinand è infatti un colto, intellettuale, con la pretesa ridicola di misurare la sua vita con la parola scritta, la logica, la razionalità; Marianne invece è l'animale, istintivo, incolto, sentimentale, che si getta a capofitto nella vita, nella natura, nel tumulto dell'esistenza, anche quanto ciò significa uccidere, tradire e morire. Queste tematiche superano già l'esistenzialismo di Antonioni e torneranno nel Ferreri del "Seme dell'uomo" e "La cagna". Questo film è anche vicino ad alcune opere coeve dell'amico/rivale Truffaut, con cui spartisce una tenerezza e una commozione di fondo, a stento soffocata da citazioni e sofismi. La capacità mimetica con cui Godard è riuscito a fare Nouvelle Vague travestita da Hollywood, o viceversa, resta il maggior lascito di questo film.
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