Regia di Andrew Birkin vedi scheda film
Quando la madre, rimasta da poco vedova, muore nel proprio letto i quattro figli decidono di seppellirla in cantina per non essere separati dagli assistenti sociali e dover così abbandonare la loro casa nella periferia inglese. Nonostante l'incuria e la sporcizia che continuano ad accumularsi, i due figli adolescenti, un ragazzo ed una ragazza, sopperiscono alle figure genitoriali e cercano di accudire i più piccoli rivelando al contempo il morboso interesse di una reciproca attrazione incestuosa. L'arrivo in casa di un figura estranea alla famiglia, il fidanzato della figlia maggiore, sconvolgerà il fragile equilibrio che si è così venuto a creare e segnerà la fine di un menage domestico senza speranza e senza futuro.
Dall'omonimo romanzo di Ian McEwan e sulla scia di un realismo drammatico che strizza l'occhio al cinema britannico dei primi anni '90, Andrew Birkin trae un film cupo e intriso di un immendabile pessimismo, attraversato dall'oscura simbologia di uno stadio terminale di un processo di inesorabile disgregazione dell'unità familiare quale tessuto connettivo di una struttura sociale votata all'individualismo ed al tramonto stesso delle relazioni interpersonali. Attraverso l'utilizzo spiazzante del montaggio in funzione metaforica (la morte del padre mentre il figlio spreca il suo seme), lo squallore di uno desertificazione urbanistica di macerie e cementificazione selvaggia, le latenti pulsioni di una sessualità morbosa sottratta al rigido controllo della morale comune, Birkin ci parla di famiglia quale microcosmo di orrori ed anarchia di una società alla deriva, come aveva già fatto Bellocchio quasi trent'anni prima ('I pugni in tasca' - 1965) ma sottraendo l'argomento alle speculazioni politiche in chiave antiborghese che avevano contraddistinto l'esordio del regista emiliano e sostituendole piuttosto con il registro rarefatto e favolistico di una dimensione sociale senza tempo e senza speranza.
Se la regressione culturale e morale del paradosso familiare prospettata dal film pone questioni fondamentali sullo scosceso spartiacque tra ragione ed istinto (il rapporto di potere tra i due ragazzi maggiori mediato dalle pulsioni sessuali, l'identità fuorviata e imitativa del figlio più piccolo, l'ostina resistenza in un fortino di confessioni private della figlia minore), il regista finisce per ammorbidire la rigidità naturalistica del soggetto attraverso il ricorso ad un flashback onirico che, insieme alle divagazioni letterarie della narrativa fantastica che accompagnano i sogni ad occhi aperti del protagonista, trasfigura le labili certezze di una identità sessuale che sembra smarcata dalla propria funzione sociale (chi è il padre? chi la madre? chi il figlio? chi l'amante?). Non c'è più progresso in una famiglia impermeabile all'intervento esterno, dove si smarriscono i ruoli fondamentali, resa sterile ed immobile come gli inutili ornamenti di un giardino di cemento cristallizzato nella sua immutabilità, senza più la speranza di un cambiamento, nell'inutile attesa di una Primavera che non verrà mai più ("Tutto sembra fisso e calmo. Non spaventato molto più da niente. Mi sembra di aver dormito per tutto il tempo trascorso. Come se non fossi mai nato. Mi sento senza peso. Come se galleggiassi nello spazio").
L'epilogo, per questo castello di bugie, sembra comunque inevitabile, segnato com'è dalla ragione di un diritto e da un ordine sociale che inevitabilmente estenderà il suo dominio sul singolare paradosso di un'inaccettabile anarchia domestica ("...Deve finire suppongo, ci succederà come a tutti gli altri. Un giorno qualcuno prima o poi verrà a frugare e scopriranno qualche mattone rotto tra l'erba alta.").
Bravissimi i due giovani protagonisti, tra cui una civettuola e conturbante Charlotte Gainsbourg diretta proprio dallo zio materno. Orso d'argento per il miglior regista al Festival di Berlino 1993.
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Un soggetto analogo come schema narrativo (ma molto meno inquietante sotto il profilo dei rapporti sessuali, questa volta ispirato a un romanzo di Julian Gloag) era stato portato sullo schermo nel 1967 da Jack Clayton: "Our Mother's House" (Tutte le sere alle nove). Anche in questo caso, quando la madre muore, i suoi sette ragazzi (figli di padri diversi) per non essere divisi non ne denunciano la dipartita e seppelliscono il corpo in giardino: qui a farne poi le spese sarà un uomo che si finge loro padre (un Bogarde ambiguo e cinico davvero repellente) che intende sfruttare la situazione a proprio vantaggio, ma farà una brutta fine proprio per mano dei ragazzi.
Proprio il capostipite letterario di Julian Gloag ('Our Mother's House') pubblicato nel 1967, valse al romanzo d'esordio di McEwan l'accusa di plagio (la prima, l'altra per il romanzo 'Espiazione' del 2001 ispirato dalle memorie di Lucilla Andrews 'No Time for Romance' e da cui è stato tratto l'omonimo film di Joe Wright). A parte la genuinità del soggetto comunque, il film di Birkin è l'ulteriore dimostrazione dell'autonomia dell'opera d'arte di fronte alle proprie ispirazioni (lo stesso film come il romanzo di McEwan) e pare perfettamente riuscito per una insolita commistione di realismo e toni grotteschi (non lo era stato altrettanto Bellocchio?). Sempre filologico caro Valerio...Recupereremo pure il film di Clayton. Grazie delle tue preziose note.
questo e' un film che registrai sui canali satellitari anni fa e che mi era piaciuto tantissimo.....certo non e' una pellicola per tutti e mi fa un'enorme piacere che tu l'abbia recensito.....gli amanti di un "certo cinema"non devono lasciarselo sfuggire....
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