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Bob il giocatore

Regia di Jean-Pierre Melville vedi scheda film

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La recensione su Bob il giocatore

di joseba
8 stelle

E' del 1956 il primo polar "destrutturante" della storia del genere. L'autore, manco a dirlo, è un certo Jean-Pierre Melville. Signori: la Nouvelle Vague "avant la lettre". Soprannominato "le flambeur" (il dilapidatore) a causa della rovinosa passione per il gioco d'azzardo, il navigato truand Bob (Roger Duchesne) organizza un colpo al casinò di Deauville insieme all'amico Roger (André Garet) e al giovane Paulo (Daniel Cauchy), che lo considera come un modello da emulare in tutto e per tutto. A mettere i bastoni tra le ruote a Bob e soci saranno la scapestrata Anne (Isabelle Corey) e il bonario commissario Ledru (Guy Decomble), nonché la sorte.



Finalmente, nel 1956, dopo i primi adattamenti di celebri opere letterarie ("Le silence de la mer", 1947, e "Les enfants terribles", 1949), Melville gira il suo primo polar (o meglio una commedia di costume travestita da polar): "Bob le flambeur". Scoraggiato dalla visione di "Giungla d’asfalto" di John Huston, Melville rinuncia al proposito originale di comporre un quadro autentico del milieu e rimaneggia la sceneggiatura scritta nel 1950 in modo tale da ottenere un film allegro e volutamente anacronistico (il milieu è sì ritratto, ma con i ricordi del 1935), che sdrammatizza i toni hustoniani (la vanità degli sforzi) stemperandoli con l’amicizia e col gioco come attività fine a se stessa.



Figura già leggendaria di un passato recente, Bob (interpretato dall’attore-truand Roger Duchesne) vive nel suo habitat naturale tra Montmartre e Pigalle, spazio che gli garantisce protezione, rispetto e incolumità, a tal punto che viene invitato a salire su una macchina della polizia e accompagnato davanti a un locale dal commissario Ledru (Guy Decomble). Al tempo stesso “cielo e inferno”, Montmartre-Pigalle è rappresentata con assoluta scioltezza visiva da Melville, che riprende la "flânerie" aurorale di Bob come se questi fosse un pesce nel suo acquario. Coadiuvato nell’adattamento - soprattutto nei dialoghi - da Auguste Le Breton, autore di quel "Du rififi chez les hommes" che nel 1953 ha conteso il primato delle vendite al bestseller in assoluto della Série Noire "Touchez pas au grisbi" di Albert Simonin (dello stesso 1953), Melville è piuttosto soddisfatto del risultato, fatta eccezione per l’abuso dell’argot fatto da Le Breton, che trovava volgare ed eccessivamente soggetto ad invecchiamento (come affermerà anni dopo).



Melville è stato definito “il più americano dei registi francesi”, ma la definizione più esatta l’ha data Gilles Jacob, il deus ex machina del festival di Cannes, nel 1966: “le plus français des metteurs en scène americains et le plus americain des metteurs en scène français”. Per misurare la distanza al tempo stesso abissale e infinitesimale che lo collega al (e al tempo lo separa dal) cinema americano conviene considerare l’incipit del film che ha fatto tornare Melville sui suoi passi: "Giungla d’asfalto" (1950) di John Huston. Se il film di Melville rappresenta Parigi come un cerchio incantato che protegge e abbraccia Bob, Huston stabilisce fin dall’inizio un rapporto di ostilità tra la città (una città imprecisata del mid-west, anche se gli esterni sono stati girati a Los Angeles) e il suo protagonista. Costretto a muoversi in ampie distese e strade deserte, Dix (Sterling Hayden) si sposta furtivamente negli spazi metropolitani, nascondendosi dal pattugliamento della polizia. Neanche il rifugio offerto dal diner gestito dall’amico Giulio (James Whitmore) lo mette al riparo: i poliziotti vi fanno irruzione e lo prelevano per portarlo in centrale.



Se Bob è circondato amorevolmente Parigi, Dix è accerchiato minacciosamente dalla metropoli: la simbiosi si incrudelisce in rigetto. Anche i tempi del racconto non potrebbero essere più differenti: Melville si attarda nella descrizione dei luoghi frequentati da Bob (del resto, come afferma lo stesso Melville, “Bob è un figlio di Parigi”) e impiega 44 minuti prima di entrare nel vivo dell’azione (il colpo al casinò di Deauville), mentre "The Asphalt Jungle", in pura ottica noir americana, è molto più spiccio ed economico, concedendo alla rappresentazione della città lo stretto necessario e procedendo con un fraseggio narrativo molto più serrato (sequenze di pochi minuti, incalzare dell’azione). Melville sembra insomma inverare la massima di Godard secondo cui: “I francesi non raccontano storie, fanno qualcos’altro”.



Siamo alle soglie della Nouvelle Vague (ad un anno dal primo lungometraggio di Chabrol, a due da quello di Truffaut e a tre da quello di Godard) e sappiamo quanto la "flânerie" rappresenti un vero e proprio caposaldo del cinema degli ex giovani turchi. La vicinanza tra Melville e Godard, vera e propria amicizia fraterna alla fine degli anni ’50 e nei primi ’60 (finché nel 1963 Godard rimprovererà a Melville di avergli rubato il finale di "Fino all’ultimo respiro"), trova espressione cinematografica attraverso un colloquio incrociato nei film dei due cineasti. Se Jean-Pierre omaggia Jean-Luc in "Deux hommes dans Manhattan" (1959) inquadrando le sigarette BOYARDS fumate dall’amico, Godard restituisce il favore in "A bout de souffle", regalandogli uno splendido cameo nella parte dello scrittore Parvulesco.



Torniamo all’incipit di "Bob": il vagabondare per le strade parigine, pur molto distante dalla stringatezza hustoniana, ha un significato molto meno esistenziale di quello che avrà per Godard e compagni. Qui girovagare per Place Pigalle si configura al tempo stesso come libero e spensierato passeggiare in uno spazio amico, ma anche come non poter fuoriuscire impunemente dal perimetro familiare: per Bob lasciare Parigi significa andare incontro ai guai. In questo senso, per Bob Parigi è spazio tanto vitale quanto concentrazionario: una prigione dorata. L’archetipo di una concezione dello spazio che difende e imprigiona al tempo stesso lo troviamo in quello che secondo Gervasini è il film che “inaugura il filone del gangster movie alla francese” (quindi sarebbe il primo polar della storia): "Pépé le Moko" ("Il bandito della Casbah", 1937) di Julien Duvivier, girato tra Algeri, Marsiglia e gli studi di Joinville non lontani da Parigi. Anche nel film di Duvivier il truand di mezza età Pépé (Jean Gabin) è protetto e segregato da uno spazio leggendario: la Casbah di Algeri. Introducendo lo spazio con una panoramica orizzontale e alternando scorci di Algeri con riprese fatte nei teatri di posa di Joinville, Duvivier restituisce il caotico brulichio della Casbah, al tempo stesso stabilendo un parallelo con Montmartre. Nell'incipit un ispettore di polizia dice: “Non siamo qui a Place Pigalle, siamo ad Algeri”, alludendo così al fatto che Place Pigalle è il rifugio della malavita parigina. Le due sequenze “rimano” non solo per modalità di messa in scena (panoramica orizzontale + discesa agli inferi), ma anche per le caratteristiche associate ai due luoghi: perdizione, frenetica vivacità e vizio.



Ma al di là del parallelismo Montmartre-Casbah, c’è un altro film che l’incipit di "Bob le flambeur" evoca in forma senz’altro più consapevole: "Touchez pas au grisbi" (1954) di Jacques Becker. L’incipit è emblematico: una panoramica orizzontale sui tetti di Parigi che svela lentamente il profilo urbanistico della Ville Lumière, correggendo leggermente la traiettoria per inquadrare meglio il Sacré Coeur (in gergo tecnico questo aggiustamento si chiama "récadrage" o "reframing") e fermandosi sulle strade di Pigalle dove brilla l’insegna luminosa del Moulin Rouge. Ma Becker, ligio al precetto della funzionalità più essenziale, stacca subito sul volto ben illuminato di Gabin all’interno del bistrot di madame Bouche, il suo quartier generale. La relazione tra Parigi e Max è come se fosse un dato scontato, non bisognoso di dettagli superflui: cinematograficamente è ottenuta per giustapposizione. Quella di Bob e Montmartre, al contrario, è ottenuta per immersione, in uno splendido scialo di tempi morti.



Melville giunge persino a subordinare la logica narrativa a quella ambientale, preferendo attardarsi nella descrizione e tirare via alcuni passaggi tramici importanti, quale quello che motiva l’amicizia tra il commissario Ledru e Bob, ridotto a una semplice battuta di dialogo in cui l’ispettore racconta ai suoi colleghi come anni prima Bob abbia deviato un colpo di pistola esploso da un bandito e indirizzato a lui. Quanto questo trattamento sia incompatibile con la logica narrativa "mainstream" ce lo mostra il remake del 2002 di Neil Jordan, che inizia preoccupandosi di saturare questa lacuna del racconto. In un tripudio di "freeze frame" e "step-framing" Jordan non solo mostra l’antefatto che nel film di Melville era relegato al semplice accenno, ma illustra dettagliatamente le ragioni che hanno spinto Bob a deviare il colpo di pistola del giovane spacciatore algerino: lo ha fatto per evitargli una condanna eccessivamente dura e per non farlo espellere dalla Francia. Evidentemente l’ambiguità melvilliana (nell’originale il commissario Ledru dice che non ha mai saputo con precisione perché Bob ha deviato il colpo) dà ancora filo da torcere al cinema contemporaneo.



Inutile aggiungere, infine, che "Bob le flambeur" rappresenterà un modello di riferimento per gli imminenti esordi dei cineasti della Nouvelle Vague, proprio come "Le silence de la mer" (1947), che tuttavia non ha soltanto spianato la strada ad una prassi produttiva ultraeconomica e disubbidiente alle regole ufficiali, ma ha anticipato quel "cinema della soggettività" che si affermerà negli anni '50 e '60, un cinema fatto tutto di verità interiore in cui la macchina da presa diventa un mezzo di scrittura flessibile e sottile al pari del linguaggio scritto. Se "Bob le flambeur" ha indicato alla Nouvelle Vague nascitura la direzione da seguire, "Le silence de la mer" ha letteralmente spalancato nuovi orizzonti all'espressione cinematografica tutta. Melville è il cinema.

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