Regia di Michelangelo Antonioni vedi scheda film
Contrastando il ritmo: programmatica distonia.
Ecco la scena più emblematica di Blow Up di Michelangelo Antonioni. Non quella finale, non la scena del concerto, ma quella del dialogo tra David Hemmings e Vanessa Redgrave. E' quasi il manifesto dell'opera del regista italiano: fumiamo una sigaretta, ma non seguendo il tempo, per carità. Uscendo dal sincrono, dall'abituale.
Inutile proseguire con un' "impersonale" terza persona, è il sottoscritto ad avere un problema con questo film (e, probabilmente, con il cinema di Antonioni in generale). Un limite personale, probabilmente, seguito da numerosissimi tentativi di risoluzione (più che con il suddetto film, con il resto dei film di Antonioni). Ecco infatti che una nuova visione di uno dei suoi più celebrati "capolavori", Blow Up, incorre per orientare in altro senso la personale posizione sul regista. E benché ci fosse l'ambizione di non affrontare il film con pregiudizi, il risultato è stato inesorabilmente fallimentare.
Blow Up è un film insincero, asfissiante, scritto, scrittissimo, nonostante si spiccichino poche parole (il che non è un male, perché anche quelle sono disposte malamente nel tessuto filmico). Un film di silenzi, si è detto, sulla percezione del reale e del non reale, della vita, della bellezza (visiva ma soprattutto NON visiva), un film sull'invisibile. Con una contestualizzazione precisa ma ostinatamente inafferrabile, intenzionato con tutte le armi possibili (dell'assurdo, del grottesco, dell'estetizzante) a disorientare lo spettatore, pur di promuovere una sua tesi precisa: l'essenziale è invisibile agli occhi. Nello sforzo sovraumano di identificare i difetti che il sottoscritto ha riscontrato, e di affrontarli come pregi, quali vengono considerati dai sostenitori del film (in pratica l'unanimità della critica di ieri e di oggi), procede la visione di un film piatto in maniera impressionante, un film "vuoto che si compiace del suo vuoto", e ci giocherella come un pittore contemporaneo che fa un bel collage e poi pretende valore artistico perché "ancora non ci aveva pensato nessuno". Il film sgattaiola furtivamente fra un'estetica volutamente disarmonica e un mistero che si infittisce, annunciato dalla frase iniziale dell'amico pittore del protagonista, subito pronto a dire che "esplorare un quadro è un po' come risolvere un enigma" (quale grossolana esplicitazione di intenti). A fronte di questa realtà, David Hemmings, faccia ricercata e apatica che scatta le foto del suo contesto come se con esso intrattenesse rapporti carnali ("sì, così, continua, è perfetto così, ritoccati la faccia, girati, più forte"), finisce improvvisamente per notare qualcosa di peculiare e misterioso in delle foto che ha scattato di nascosto a una coppia di probabili amanti giunta in un parco per ottenere possibilmente una parentesi amorosa lontana da occhi indiscreti. Il voyeur/viveur Hemmings però è pronto con la sua macchina fotografica a rubare un po' di vita anche a quel rapporto umano, in maniera tale da poterlo controllare nella stessa maniera maniacale con cui realizza e poi sviluppa le sue fotografie: entrando in esse. Un processo infallibile, che lo vede prima andare a pernottare nell'ostello dei senzatetto per impressionare su pellicola un po' di situazioni, e poi giacere con le sue modelle prima di (eventualmente) fotografarle. I piccoli dettagli che comincia a notare in quelle benedette foto diventano la sua ossessione, ed è difficile distrarsi dal costante pensiero di essere stato testimone inconsapevole (prima e dopo) di un omicidio. Ovvio anche che non è detto sia tutto vero, e magari è tutto frutto della sua immaginazione. Come orientarsi verso una risposta?
Blow Up ha la pretesa del film labirintico e ipnotico, crea un'atmosfera tesa che potrebbe infastidire gli spettatori meno accorti e che richiedono per forza una risposta. Ma può infastidire chiunque, in realtà, non solo gli amanti della verità, e non perché non dà risposta, ma perché si compiace del non darla. Il suo è un sadismo ingiustificato e dissimulato: usa lo strumento cinematografico in maniera artefatta, per osservare con un discreto biasimo un mondo vuoto riempito di gesti e usanze altrettanto artefatte. E non è immersione nel soggetto, non è ironia, è calcolo premeditato e dunque scivolone stilistico imperdonabile, è il sentore continuo che la reazione dello spettatore lì è prevista, conteggiata, presa in considerazione al momento della scrittura, prima di qualsiasi altra cosa, prima di un qualsiasi senso. Il risultato è che in ogni momento sappiamo cosa stiamo guardando, e se vogliamo parlare di disorientamento, parliamo di piccoli giochetti vedo/non-vedo degni del miglior Dario Argento e di Profondo rosso (intoccabili, loro, ma con molte meno pretese di Antonioni, nonché inadatti al contesto delle pretese di Blow Up). Insomma, non siamo mai disorientati, quanto piuttosto invitati più e più volte a distogliere lo sguardo dalle facce da pesce lesso di tutti gli attori, emblemi, con altri personaggi di Antonioni, dell'incomunicabilità, dell'inconsapevolezza, dell'inafferrabile.
L'errore più increscioso (inutile dire che ci troviamo ancora nel campo della soggettività) è quello di dare una conclusione logica all'intero film: la scena dei mimi, la conclusione di un programma, quella che conferma la tesi per cui Blow Up è un film di idee, ancor prima che di immagini. I mimi felici arrivano al campo da tennis, cominciano a giocare, lo sguardo di Antonioni si avvicina sempre più alla palla invisibile, fin quando non finisce fuori dal campo e Hemmings sta al gioco, prendendola e rilanciandola al campo. In quel momento non vediamo, ma "sentiamo" la palla, nelle nostre orecchie. Ecco di cosa si parla quando si parla di un film terribilmente scritto: ogni scena "geniale" suona come una trovata, un aneddoto forzatamente coerente con il tema dello sguardo e dell'incomprensione del reale. Non c'è vibrazione, in Blow Up, c'è una tesi rincorsa a perdifiato, e ottenuta senza troppa fatica. Privo del fascino dell'ossessione e della paranoia, ma contornato di singole situazioni grottesche e "svuotanti" (e dunque episodico, frammentario, inconsistente), Blow Up scivola via rivestendosi dell'etichetta più definita possibile: l'indefinizione. E, giochicchiando con discorsi meta-artistici ridondanti e arcinoti (la telecamera che fissa le fotografie, la telecamera riflessa nel vetro della cabina telefonica, la cinepresa che rincorre il personaggio senza riuscire mai ad afferrarlo), il film sembra sfiorare il dilettantesco e chiudersi in una baraonda incontrollata di semplificazioni della vita e dei suoi costrutti fallaci e sovrastrutturali. In poche parole, rendendo evidenti i suoi strumenti espressivi, li mette in buona luce e li sfodera come con le armi violente di una collezione, per poi concludere nel compiacimento e nella discreta dose di arroganza che caratterizza queste e altre pellicole del regista Antonioni. Estenuante, invecchiato e molto poco brillante.
Ma, evidentemente, importantissimo ai fini della Settima Arte. O forse solo meramente "utile"?
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