Regia di Wim Wenders vedi scheda film
Wim Wenders si ispira lontanamente al romanzo Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister di J. W. Goethe (adattato da Peter Handke) per affrontare — nel secondo capitolo della cosiddetta “trilogia della strada” — tematiche non da poco come l’alienazione dell’uomo moderno, la sua difficoltà nel comunicare coi propri simili, e soprattutto il “falso movimento” (titolo bellissimo) di chi, desiderando in apparenza muoversi verso gli altri per liberarsi della propria solitudine, non nutre in realtà alcuna intenzione di percorrere un solo centimetro in tale direzione: «In realtà il mio unico desiderio era di rimanere solo e indisturbato nella mia apatia. Lì, sullo Zugspitze, aspettavo che succedesse qualcosa; ma non accadde nulla. Perché ero fuggito? Perché avevo lasciato gli altri? […] Era come se avessi perduto e continuassi a perdere qualcosa ad ogni nuovo movimento...». È forse questo il motivo per cui, se questo film può essere considerato un road-movie al pari degli altri due capitoli della trilogia, ci si sposta comunque molto meno che in Alice nelle città o Nel corso del tempo, e quasi sempre ci si muove a piedi in lunghi ed estenuanti piani-sequenza. Indotto dalla madre, il giovane Wilhelm lascia la sua piccola città natia, poiché la soffre, lo corrode e lo infastidisce. È alla ricerca del tutto, essendo uno scrittore in vesti romantiche, ma conosce anche perfettamente i suoi limiti, l’incapacità di relazionarsi con le cose. La sua è sicuramente una ricerca che va oltre la possibilità di scrivere e di esplorare fisicamente nuovi luoghi. Nel suo viaggio che attraversa la Germania Occidentale fino alle Alpi, Wilhelm si rivela una magnetica attrazione di girovaghi: nello stesso scompartimento siedono Lafrest e Mignon, un ex-nazista e la giovane figlia; Therese è un’attrice il cui sguardo si incrocia con quello di Wilhelm nella fluidità del movimento dei treni che viaggiano parallelamente sui binari di una Germania solitaria; Bernard è un poeta vagabondo. Falso movimento ribalta abbastanza genialmente l’idea alla base del road-movie, in cui il viaggio è in genere visto come occasione formativa e di crescita in cui si impara a vivere: Wilhelm non apprende nulla dal suo viaggio né raggiunge una qualsiasi meta, ne esci anzi più confuso e disorientato di prima. Il suo (falso, appunto) interessamento nei confronti degli altri nasce dall’esigenza di trovare nella vita reale spunti per scrivere, un’attività che notoriamente si pratica in solitudine. Temi senz’altro veri e importanti, quindi, quelli alla base di Falso movimento, che però vengono affrontati in questo caso in modo troppo diretto (programmatico) e soprattutto troppo letterario: si avverte qui — come avverrà purtroppo anche in seguito, a partire da Il cielo sopra Berlino — la prevalenza della sceneggiatura dell’austriaco Handke sulle immagini di Wenders, soprattutto nella verbosità didascalica e intellettualistica dei dialoghi, che finiscono per appesantire il film, mentre solo nelle sequenze urbane e paesaggistiche il regista sembra come riappropriarsi del film con il suo, inconfondibile, stile. Il comparto più felice è senz’ombra di dubbio quello degli attori, a partire dalla quindicenne Nastassja Kinski — che esordisce qui accreditata col suo vero nome di Nakszynski — e da una sempre grande Hanna Schygulla: memorabile la sua entrata in scena, che è in grado di riassumere il senso del film con una pregnanza figurativa dinnanzi alla quale nulla possono dialoghi metafisici e cascami letterari. Mentre la fotografia a colori, ancora una volta firmata da Robbie Müller e Martin Schäfer, messa a confronto con quelle in bianco e nero degli altri due capitoli fa tornare in mente una battuta di Samuel Fuller ne Lo stato delle cose: «La vita è a colori ma il bianco e nero è più realistico». VOTO: 2,5/5
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