MUBI offre ai suoi abbonati qualcosa di imperdibile, Los Angeles Plays Itself. L’ha realizzato Thom Andersen, un ottimo filmmaker e professore presso il California Institute of the Arts. Si tratta di un videosaggio dedicato alla città in cui Andersen vive: Los Angeles. Un lungo excursus tra spezzoni di film, preciso commento over, documenti d’epoca, riprese in 16 mm. Suddiviso in tre capitoli, The City as BackgroundThe City as Character (a sua volta diviso in due parti), The City as SubjectLos Angeles Plays Itself coglie questo agglomerato urbano analizzandolo in maniera storica, filmica, architettonica, soprattutto sociale, con un movimento simile a uno zoom: dal fondo (la città come fondale), giungiamo a osservarla come soggetto stesso.

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Los Angeles Plays Itself

Partiamo dallo sfondo delle finzioni che il film racconta. Set cinematografici permanenti, come quel McDonald’s posto a City of Industry, utilizzato solo per riprese cinematografiche e chiuso al pubblico. Palazzi che sono emblemi: il Bradbury Building. Le trasformazioni a cui è stato sottoposto dagli studios: hotel di Mandalay in Ragazza cinese (1942), ospedale militare londinese, palazzo postmoderno in Blade Runner. Oppure l’Ennis House, progettata da Frank Lloyd Wright, presente in numerosissimi film, a partire dagli anni 30.

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Los Angeles Plays Itself

Il secondo capitolo isola alcune costruzioni tipiche (abitazioni, stazioni di benzina, supermercati, drive-in), mostra la loro evoluzione. Si interessa a certe zone della città, oggi andate distrutte, come quella di Bunker Hill, con la sua breve funicolare. Ha accolto reietti, killer. Ancora prima accoglieva famiglie di lavoratori. È diventata un luogo apocalittico in 1975: Occhi bianchi sul pianeta Terra (1971). Chi l’ha meglio mostrata è Kent MacKenzie in The Exiles (1958-1961). Un film rimarchevole. Los Angeles diventa “soggetto”, cioè cosciente di sé, negli anni 70. Alludiamo evidentemente a Chinatown, sicuramente il segmento più importante del saggio di Andersen.

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Los Angeles Plays Itself

Documenti d’epoca sono montati insieme a spezzoni del film. Chinatown diventa la figura nel tappeto: la storia segreta di Los Angeles, di quell’accesso all’acqua che gli ha permesso di svilupparsi. Le immagini dei grattacieli in The Million Dollar Hotel (2000), con in sottofondo il tema musicale del film di Polanski, parlano di una speculazione urbanistica più recente. Non per nulla un saggista come Mike Davis, citato da Andersen, parla al proposito di “Chinatown revisited ”. Los Angeles Plays Itself si chiude su alcuni film “neorealisti”. Sono stati realizzati da cineasti di colore: Charles Burnett, Haile Gerima, Billy Woodberry. Sono film in cui si cammina, non ci si sposta solo in automobile. La città è finalmente visibile. In Bless Their Little Hearts (1983) di Billy Woodberry, un uomo filmato al finestrino dell’auto ci permette di vedere le gigantesche rovine della fabbrica della Good Year in South Central, chiusa nel 1980. Dava lavoro alla classe operaia di colore.

Autore

Rinaldo Censi

Rinaldo Censi scrive, traduce libri, programma film (quando gliene danno l'occasione). Si interessa alle frontiere disciplinari. Ama la musica da tappezzeria.

Il film

locandina Los Angeles Plays Itself

Los Angeles Plays Itself

Documentario - USA 2003 - durata 169’

Titolo originale: Los Angeles Plays Itself

Regia: Thom Andersen

Con Encke King, Ben Alexander, Jim Backus, Brenda Bakke, Barbarao, Gene Barry