Jimmy O. Yang è il più classico degli attori caratteristi elevati – chiamerei così gli interpreti partiti da piccoli ruoli di circostanza e arrivati a ruoli da protagonisti in film da cassetta poco memorabili – , uno che negli ultimi più o meno dieci anni si è fatto il mazzo partendo da zero per ritagliarsi un ruolo nel mondo dello spettacolo. L’avete visto in Crazy & Rich, in Amiche in affari, nel maldestro remake cinematografico di Fantasilandia intitolato Fantasy Island (nei panni di Tattoo che erano stati di Hervé Villechaize) e in Love Hard, commedia Netflix che gli ha dato la chance di limonare per finta Nina Dobrev e già per questo egli ha vinto se non tutto, quantomeno molto.

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Silicon Valley

L’avete visto, soprattutto e specialmente, nei panni acidelli e cinesi all’ennesima potenza di Jian-Yang in Silicon Valley, che dopo essere apparso – al minimo sindacale di stipendio, storia vera – nella prima stagione, è diventato un antagonista fisso (e serpe in seno) dei protagonisti interpretati da Thomas Middleditch e T.J. Miller per tutto il resto della serie. L’avete visto spesso e volentieri ma non ve lo ricordate e non sapreste comunque riconoscerlo perché, statisticamente, non siete cresciuti guardando un numero eccessivo di film orientali – acquisendo il superpotere di riuscire a godersi Infernal Affairs senza confondersi troppo – e, dunque, gli asiatici al di fuori del subcontinente indiano vi sembrano tutti uguali.

Se avete paura a leggere ad alta voce la fine del paragrafo qui sopra perché poi arriva la polizia dell’internet a dirvi che siete razzisti e dovreste vergognarvi di essere venuti al mondo per poi avere un singolo pensiero così sozzo e privo di dignità, non temete: stavo solo ricalcando l’apertura dell’ultimo speciale di stand up (il secondo della sua carriera, entrambi su Prime Video) di Yang, intitolato Guess How Much?. Sì, perché l’attore – nato a Hong Kong e trasferitosi con la famiglia negli Stati Uniti a 13 anni – oltre a essere un buon interprete in grado di spaziare tra il serio e il faceto, è anche un signor monologhista. Anzi. Ben prima di diventare attore per sfruttare il fondo pensione della categoria, Yang nasce come signor monologhista. Il suo primo, epico nome d’arte quando ha iniziato a fare stand up a 21 anni, in locali californiani rigorosamente fumosi (per i salutisti giustamente anti-sigaretta: tranquilli, stavolta è erba), era Lowball Jimmy. Più o meno “Jimmy Stima al ribasso”. Un nome che più lo leggo, più mi fa abbastanza ridere.

Poi è arrivata Silicon Valley, quindi sono spuntati i ruoli al cinema e finalmente, nel 2020, la possibilità di registrare e distribuire il suo primo speciale comico, Good Deal. Yang vince l’inerzia, ottiene un ruolo in Space Force – che non sarà The Office, che sarà stata cancellata dopo due stagioni, ma che comunque ha coinvolto gente di un certo livello – , ne ottiene un altro in Alla ricerca di me - American Born Chinese e, nel 2023, butta fuori questo secondo monologo; una strana bestia comica che per i primi venti minuti vi farà grattare il testone un po’ confusi. Per accogliere il pubblico non asiatico, Yang esordisce con una battuta sui BTS – fra le poche realtà culturali provenienti da quella metà di mondo ecumenicamente riconosciute da tutti quelli che hanno accesso a internet e al buon tempo. Dice che lui, per esempio, i BTS non li riesce a distinguere uno dall’altro perché sono tutti uguali fra loro e sono tutti uguali a lui che è uguale ad Awkwafina. Yang decide di giocare facile, buttandola in caciara con questi vecchi stereotipi; eppure lo ricordavo un comico molto più acuto di così.

Yang prosegue raccontando di un veterano che, una sera in un bar, ha insistito per offrirgli da bere perché era stato quattro anni di stanza a Okinawa e la sua gente l’aveva trattato benissimo. “Signore, io sono cinese. Sono sicuro che la sua missione a Okinawa fosse proprio quella di controllare da lontano quelli come me”. “Non importa, comunque adoro il pad thai”. Parla di asiatici pionieri delle misure contro il COVID perché indossavano la mascherina e facevano distanziamento sociale ben prima che andasse di moda o fosse obbligatorio per sicurezza: niente abbracci o strette di mano, solo inchini. Comincia a entrare nel vivo quando descrive le mamme cinesi, regine dell’allarmismo, che peraltro assomigliano molto a quelle italiane: se esci senza giacchetta prendi l’influenza, se vai a letto con il ventilatore acceso è polmonite assicurata e se ti addormenti con i capelli bagnati sicuro che ti svegli freddo. Nel senso che non ti svegli. Morto. Kaput. E dopo venti minuti, ribalta questa serie di vecchi stereotipi raccontando di quando ha scambiato Evan Rachel Wood per Rachel Rachel Brosnahan, visto che tutte le donne bianche un po’ si assomigliano.

Quello di Yang è uno spettacolo che parte piano, quasi pianissimo, scaldando il pubblico con luoghi comuni, battute che stanno appollaiate sui rami più bassi dell’albero e sfruttando i primi stereotipi che di solito si trovano in cima al mucchio degli stereotipi [Il mucchio di stereotipi lo trovate laggiù abbandonato in cantina, accanto alla pila di Guerin Sportivo che babbo collezionava da giovane]. Una volta ingranata la marcia, però, Yang decolla. Trascina nel monologo i genitori, la moglie e gli amici di una vita – sempre nelle premesse, mai nelle punchline – crea un discorso coerente, ma sempre votato all’intrattenimento (mai alla predica) e gira perfettamente la frittata ribaltando i paradigmi del suo spettacolo. Prima ci ha rassicurati e fatti mettere comode con battute che potevamo prevedere, poi ha proseguito con un repertorio che si è fatto via via sempre meno banale. È il superpotere di ogni signor(a) monologhista che si rispetti: portare a spasso il proprio pubblico per arrivare al massimo dell’intrattenimento.

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Jimmy O. Yang: Guess How Much?

Autore

Nicola Cupperi

Scrive per FilmTv perché gliel'ha consigliato il dottore. Nel tempo libero fa la scenografia mobile. Il suo spirito guida è un orso grigio con le fattezze di Takeshi Kitano.