Uno su mille ce la fa, ma com’è dura la salita diceva il buon Gianni Morandi. Ma l’intrepido manone di Monghidoro (un tempo nota come Scaricalasino, storia vera) quella massima la cantava nel 1985, quando al mondo c’erano 4,85 miliardi di persone. Oggi dicono che siamo in 8,01 miliardi. Aggiungici lo sfrenato e iperbolico ottimismo di Morandi – uno che pensava di poter andare ai 100 all’ora su una motoretta del ‘62 e sulle strade di campagna del bolognese – e calcola che l’aggiornamento realistico della proporzione in Uno su mille dovrebbe essere attorno all’Uno su 947mila. Se va bene. Il punto è: per emergere e diventare fra i più bravi e i più famosi nel proprio mestiere o nella propria arte, bisogna avere fortuna, tempismo, talento, disciplina, ancora fortuna, il culo parato, ambizione da vendere e di nuovo fortuna. Il mondo dello spettacolo, lo sappiamo, è particolarmente ingrato da questo punto di vista. Un po’ perché promette ricchezza e fama esagerate in cambio di qualcosa che ti piace fare (in teoria). Un po’ perché va a toccare il reame dei sogni, delle passioni e delle emozioni in maniera statisticamente più significativa rispetto a quanto possa succedere nel campo dell’ingegneria. Per uno che ce la fa alla grande, ne rimangono nell’ombra 946.999. Sono tanti. Così a naso sono Napoli e Forlì messe insieme.
Dave Chappelle è quasi sicuramente il comico di stand up più ricco e più famoso del mondo, e queste cose le sa. È cresciuto nell’ambiente – ha iniziato a esibirsi da adolescente nei locali di Washington D.C. – e ne ha viste di ogni, sorpassando a destra e senza freccia una tonnellata di colleghi e colleghe magari altrettanto bravi e brave, ma a cui è mancato qualcosa per fare breccia nelle abitudini d’intrattenimento del grande o grandissimo pubblico. Per Netflix, con cui ha un sontuoso contratto d’esclusiva, Chappelle ha deciso di produrre una serie a scadenza irregolare. Chappelle’s Home Team è diventata una cornice, una specie di etichetta con cui il comico in perenne litigio con la comunità trans fornisce ad alcuni colleghi – professionisti che lavorano e guadagnano bene pur senza aver avuto accesso all’empireo delle superstar – la possibilità di avere quello speciale in streaming che oggi, almeno agli occhi buzzurri del pubblico statunitense (ma anche a quelli, meno emotivi, della statistica), separa un comico di vasto successo da uno che non ce l’ha fatta. Chappelle sembra quasi voler dire: sapete quanti comici pazzescheccezionali esistono che non sono riusciti a ottenere uno speciale in TV o in streaming per mille motivi? Se avere il proprio speciale su Netflix è anche questione di politica e di opportunità, allora io (Dave Chappelle) sarò la politica che smuoverà i vertici e fornirà l’opportunità a una serie di comici che mi piacciono e credo meritino una vetrina più ampia.
Curiosamente, al contrario di quello che si fa di solito, Chappelle si tiene lontano dai giovani virgulti di belle speranze. Il suo Home Team non si dedica a scovare nuovi talenti, ma a innalzare vecchie volpi che da decenni girano per locali rigorosamente fumosi e TV rigorosamente locali. Su Netflix Italia sono due gli spettacoli di Chappelle’s Home Team a disposizione e sono dedicati a due comici che, nonostante il loro materiale faccia pensare altrimenti, hanno scavallato i 60 anni. Il primo è Legendary di Earthquake, omone di Washington D.C. ribattezzato in quel modo lì (Terremoto) dalla madre, ma non per i motivi che potete immaginare (“Ogni volta che prendi tutte le precauzioni per non avere un figlio – dal diaframma al preservativo – e hai comunque un figlio, non puoi che chiamarlo come un disastro naturale”).
Per Earthquake, uno speciale di mezz’ora invece di un’ora non significa meno battute. Anzi. Significa che il materiale per uno spettacolo di un’ora viene condensato in meno tempo, creando un ritmo assolutamente travolgente. Il comico di Washington parte sparato da un cannone per raccontare la sua esperienza con il coronavirus e l’ipocrisia di certe fasce della comunità afroamericana, che preferiscono l’assicurazione della macchina a quella sanitaria, gli orecchini di diamanti al dentista, la cocaina al vaccino e intanto hanno la pressione sanguigna “più alta della topa di una giraffa”. “E al tuo fegato chi ci pensa? Gesù”. Temi ed esperienza sul palco sono coerenti con la sua anagrafe – come il lungo bit sull’esame prostatico, vecchia scuola dell’uomo etero spaventato a morte dall’idea di avere un dito nel culo – ma impacchettati e consegnati con l’energia e l’entusiasmo di un ventenne che ha cominciato da due settimane a fare il comico e ha ancora la gana di uno che vuole azzannare il mondo e mangiarselo intero.
L’altro speciale sponsorizzato da Chappelle, nonché quello pubblicato più recentemente da Netflix, è Town Business di Luenell, 64enne idola di Oakland e della costa ovest. A dirla tutta, Luenell è l’unica comica nera ad aver mai avuto un suo spettacolo fisso sulla Strip di Las Vegas, dunque non è neanche lontanamente l’ultima arrivata. Ma, come si diceva sopra, non ha mai avuto il riscontro che meritava con il grande pubblico generalista. In questa mezz’ora di fuoco, la matrona incazzata della comicità afroamericana – pronta a scagliarsi contro tutto il sistema dell’areonautica civile perché un anno, a Natale, le hanno cancellato il volo per Las Vegas dove si sarebbe dovuta esibire – coabita sul palco con un trono e un tavolino con sopra una coppa e una tazza. Tutto dorato. È la regina del suo spettacolo, e nel suo regno decide lei l’etichetta di corte. A 64 anni ha la tigna di un giovanotto che si vanta di quante pischelle è riuscito a ficcare e lo fa con lo stesso swag, la stessa incrollabile sicurezza in se stessa come se il giudizio altrui non esistesse (o comunque non avesse importanza), di una persona che non ha la minima intenzione di rispondere di niente a nessuno. Anche quando si incarta e deve ricominciare, trasuda un carisma e un’esperienza tali che il pubblico in sala comunque pende da qualsiasi cosa lei dica. È un animale da palcoscenico che nonostante possa essere nonna riesce a vendere alla perfezione battute come “Mi rimangono 17, 18 scopate ben fatte e poi chiudo bottega”. È l’epitome di quello che ci si aspetta da un comico sin dagli albori dell’arte: una persona che salga sul palco a dire tutto quello che chi sta in platea non avrebbe mai il coraggio di profferire in un contesto pubblico.
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