“Non si può più dire niente” è il recente mantra adottato da un gran numero di persone che fanno spettacolo, o comunque hanno una voce pubblica, per difendersi a spada tratta da quello che percepiscono come l’attacco della cultura woke. Un mantra brandito con la stessa cazzodurite con cui si imbraccia un mitra, perché la guerra contro quello che in italiano è stato genericamente (e moralisticamente) tradotto come “politicamente corretto” è una collina su cui vale la pena morire dissanguati. No pasaran. Non ci costringeranno a deturpare la gloriosa lingua di Dante solo per essere più inclusivi e far sentire meno rifiutate categorie di persone che fino a oggi sono state neglette da una società indiscutibilmente patriarcale. Odino ci scampi da quelli che invocano “la lingua di Dante” e poi hanno il vocabolario di Martufello [e, fra parentesi, Fthà ci liberi dagli stolidi che usano Topolino come termine di paragone deteriore senza avere contezza che è scritto meglio del 75% della stampa in circolazione]. Non faccia testo come sondaggio ufficiale, ma è ironico che la grande maggioranza del partito dei “Non si può più dire niente” sia composto da uomini purosangue italici che hanno più di 40 anni. Cruciani, Porro, Capezzone, Orsini, Feltri, Giordano, Barbareschi, il recente fenomeno Vannacci, Pio e Amedeo, Angelo Duro.
Tutte persone che non hanno il coraggio o l’onestà intellettuale di riportare il concetto nella sua interezza: “Non si può più dire niente, senza restare impuniti e senza avere un contraddittorio che metta quantomeno in discussione le nostre posizioni perché oggi esistono più categorie di persone che hanno voce in capitolo. Quindi si può dire tutto ma, guarda un po’, ci si deve prendere la responsabilità delle proprie affermazioni”. Ecco. Se avete voglia di ascoltare un ottimo comico che parte dalla premesse del “Non si può più dire niente” per poi imbastire un castello retorico opinabile ma motivato da un pensiero e non da un’ideologia, provocatorio senza essere vano e cattivo senza essere mostruoso, il grande saggio della stand up italiana Filippo Giardina fa al caso vostro. All’interno di un discorso pubblico che ha perso la capacità di leggere il contesto e le sfumature, dove le posizioni debbono essere per forza manichee, Giardina è uno dei pochi comici italiani “contro” che anche un alleato del politicamente corretto – che rifugge gli estremismi ed è in grado di concordare sul fatto che il wokismo, per la sua intrinseca natura morale incentrata sul giusto e sbagliato, abbia fisiologiche derive di bigottismo – può godersi senza farsi venire la schiuma alla bocca.
Giardina, romano classe 1974, fa stand-up dai primi anni 2000, quando il panorama italiano era allo stato fetale, ed è il monologhista che nel 2009 ha fondato il collettivo Satiriasi contribuendo immensamente a creare un movimento e a portare la comicità moderna italiana nell’età adulta: non più solo genere d’intrattenimento fine a se stesso (che non c’è niente di male), ma forma d’espressione ibrida tra il letterario e la performance (che è meglio, come pufferebbe puffo Quattrocchi). Oggi, a quasi cinquant’anni, sta girando in tour con il suo undicesimo monologo, Cabaret. Per l’occasione (e per promozione), ha “liberato” sul suo canale YouTube il suo precedente spettacolo, Dieci, registrato a marzo del 2022: un sapido monologo ricco di arguzia vivace, che fa retorica umoristica sulla grande frase di cui sopra, “Non si può più dire niente”. Il cuore del suo discorso è semplice, efficace e giusto: “La comicità è cosa nobile perché ha reso uguali gli umani nelle loro miserie”. In quanto comico, sul palco Giardina rivendica il diritto a poter dire tutto il cazzo che gli pare – prendendosi la responsabilità delle sue parole – anche scadendo nelle battute sulle ragazze ciccione (definite malamente boiler) che hanno più talento nella fellatio perché è l’unica carta che possono giocarsi. Lo spettacolo si apre con un bit che entra a gamba tesa sulla capacità dello spettatore di dare fiducia al performer. “Vorrei avere un figlio down”, dice Giardina alludendo al fatto che, per averlo, dovrebbe accoppiarsi o con la sorella o con una donna affetta dalla sindrome. È una premessa che serve a prendere in giro i genitori che ostentano la loro ricerca di pietà e che si rivolve come strumento comico per introdurre il grande tema delle differenze di genere e del politicamente corretto che, secondo lui, vorrebbe annullarle.
Giardina, ormai è chiaro, lo odia il politicamente corretto. O meglio: detesta la criminalizzazione dei luoghi comuni. Non sopporta che gli stereotipi e le generalizzazioni vengano prese a sassate quando, a essere onesti, sono strumenti cognitivi che hanno un fondo di verità, anche se non dovrebbero essere utilizzati per modellare una realtà. Il tutto mentre gli stessi che si accaniscono contro i luoghi comuni difendono a tutti i costi il concetto neo-bigotto di tradizione. Qua e là Giardina si lascia scappare alcune fallacie retoriche, arrivando a conclusioni dalla logica valida che però partono da premesse scricchiolanti. Il bit sulle tradizioni, che paragona la carbonara all’infibulazione, è brillante e ben costruito, ma parte dal presupposto che qualcuno, nella sinistra moralista e benpensante, difenda il diritto alla tradizione della mutilazione genitale femminile. È certo che esiste qualcuno talmente woke da essere disposto a difendere anche le pratiche tradizionali più barbare in circolazione nel nome dell’autodeterminazione di ogni cultura, ma spero che sia una minoranza tale da non aver bisogno di essere elevata a problema generale. Quello di Giardina è un tentativo, enormemente meno banale rispetto ad altri, di semplificare realtà complesse. È la prova provata che ognuno può ancora dire tutto quello che vuole, specialmente se è un comico in possesso dell’arte retorica necessaria a supportare la sua visione ironica del mondo che ci circonda.
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