Non dev’essere un caso che il successo di Jury Duty sia esploso, negli Stati Uniti, su TikTok e Instagram, diventando virale, e portando un piccolo esperimento distribuito su una piattaforma ignota ai più (Freevee, un servizio gratuito con pubblicità che la maggior parte degli utenti Amazon americani non sa nemmeno di avere) a quattro nomination agli Emmy, compresa quella ambitissima per “miglior comedy”. Mentre il mondo social segue ossessivamente veri processi come fossero insieme soap opera e trincee di “guerre culturali” (Depp vs Heard, ovviamente, e prossimamente Usa vs Trump, senza dimenticare la surreale vicenda dell’incidente sciistico di Gwyneth Paltrow), Jury Duty è una forza uguale e contraria: è un processo finto, organizzato attorno a un’unica persona vera, e ignara - ma, a differenza della quasi totalità delle candid camera, il protagonista dell’inganno non è la vittima, o il villain, ma l’eroe.
Si chiama Ronald Gladden, è un trentenne californiano, alto e sorridente, di professione installatore di pannelli solari, ma momentaneamente disoccupato quando risponde all’annuncio su Craigslists che cerca persone interessate a far parte di una giuria popolare che sarà interamente filmata per un documentario sul sistema giudiziario statunitense. In realtà, a parte Ronald, tutto il resto è finto: i suoi 11 colleghi giurati, il giudice, l’agente giudiziaria, gli avvocati, l’imputato e l’accusatrice sono attori; il caso è inventato, recitato e scritto; le aule sono quelle di un ex tribunale dismesso; il doc sul sistema giudiziario americano non esiste. James Marsden - l’attore hollywoodiano visto in X Men, Come d’incanto, Westworld e nel «non molto buono» Sonic - è davvero James Marsden, ma è James Marsden che interpreta una versione stronza e iper narcisista di James Marsden.
Per sette episodi su otto, Jury Duty mantiene la finzione anche con lo spettatore: eccezion fatta per il cartello che ricorda «12 giurati, 11 attori» all’inizio di ogni puntata, nessuno esce mai dal proprio - spesso assurdo - personaggio, anche quando si confessa alla camera, e l’azione fluisce proprio come una mini stagione di The Office (da cui infatti provengono gli autori), ma improvvisata in stile commedia dell’arte.
E se l’innesco della tensione è nel format - la domanda: «Ron se ne accorgerà?» -, se la comicità è data dall’attrito spesso esilarante tra i gag degli altri e le sue reazioni, il cuore diventa presto diegetico (e a tratti quasi commovente), grazie a un intreccio insolubile di scrittura e verità: perché, sistematicamente e via via più sorprendentemente, Ronald Gladden si rivela «una brava persona» nei modi più imprevisti, teneri e goffi, ma efficaci, in un crescendo di senso civico che ha poco da invidiare a La parola ai giurati. E, attorno a lui, pure gli altri sembrano diventare un po’ più “veri” - almeno nei legami, nelle emozioni, nei sentimenti. «Pare quasi di essere in un reality show» mormora Ronald, un paio di volte, mentre tutti restano, miracolosamente, impassibili. Ma il punto forse è proprio che quest’ibrido tra scripted e unscripted, tra true crime e Truman Show, tra doc e mockumentary, di un reality è per molti versi, e soprattutto nello spirito, l’esatto opposto.
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