Secondo me si tende sempre a sottovalutare uno dei pilastri fondamenti che compongono la meta descrizione del mestiere di stand-up comedian: la carriera di comicoa è l’unica, nel mondo dell’intrattenimento ad alto livello, che (volendo, fortissimamente volendo) si può perseguire in totale autonomia, senza bisogno di dipendere da qualcuno, di iscriversi (giustamente) a qualche sindacato o di scendere a particolari compromessi. Certo che è sempre meglio avere un agente ammanicato che chiami i gestori dei locali – rigorosamente fumosi – al posto tuo per svoltarti una o più serate; sicuro che sarebbe consigliato avere un ufficio stampa per rompere le scatole alla gente per interposta persona; ed è anche palese che il top sarebbe una conoscenza in Rai per sfangare una marchetta a Unomattina (o il corrispettivo americano) quando le vacche sono magre. Ma tra podcast e piattaforme di social media, un comico bravone o una comica bravona possono agilmente permettersi (con un tot di sbattimento in più) di bypassare qualsivoglia intermediario e andare drittoa per la propria strada autarchica.
Diamine, guarda cos’è successo a Louis C. K., per fare uno degli esempi più clamorosi; che già all’apice del suo successo aveva cominciato a vendersi da solo i biglietti (e gli speciali e le serie che creava) sul suo sito personale, e che dopo essere stato cancellato perché si toccava il pipino davanti a colleghe non del tutto consenzienti, si è ricostruito una nicchia di mercato pur senza poter contare su televisione, cinema e radio. Bo Burnham è un altro ottimo esempio: certo che è passato su Netflix, perché Bo Burnham è pur sempre Bo Burnham, ma il suo leggendario speciale da pandemia Inside se l’è fatto, scritto, prodotto, post-prodotto, illuminato, filmato, editato, montato, scenografato, acconciato, pettinato, musicato e cantato da solo. Se non avesse avuto obblighi contrattuali con Netflix e l’avesse buttato su YouTube, per dire, ne avrebbe ricavato cifre simili.
Questo per ribadire in ogni salsa che, oggigiorno, se un* stand-up comedian vuole essere totalmente indipendente – non avulso dai suoi pari, ma libero da obblighi nei confronti della filiera dell’industria dello spettacolo – ce la può fare. E beccami gallina se Emma Arnold, una delle comiche autarchiche più fiere, più brave e di maggior successo in circolazione, non ce l’ha fatta e alla grande. Myself è stato caricato su YouTube poco tempo fa, è stato inciso come album comico (il quinto di Arnold) tramite un’etichetta super indipendente (la Blonde Medicine) ed è il suo secondo speciale filmato dopo l’esordio di quattro anni fa con Yes, Please.
Sono abbastanza sicuro di una cosa. Se Emma Arnold dovesse mai leggere questo panegirico a lei dedicato, risponderebbe ridendomi in faccia e dicendo: vengo dall’Idaho, quella roba inutile incastrata in mezzo ad altra roba inutile (Montana, Utah, Oregon, Maccosa?) e a quello stato abbastanza fesso da chiamarsi come la capitale del paese, sono una quarantenne divorziata e ri-sposata con tre figli adolescenti, vivo in una città che si chiama come un trapano multifase che regali a un uomo in crisi di mezza età (Boise), ma secondo te avevo scelta? Secondo te l’industria dello spettacolo se ne fa qualcosa di una persona come me oppure mi trattano a priori come il fondo melmoso dei vasi vinari altresì noto come feccia? [Lei stessa, nello spettacolo, racconta di essere cresciuta in una zona rurale, con una famiglia a metà tra gli hippie di montagna e i bifolchi incestuosi che vorrebbero tornare ai primi dell’800 come idea di società. Entrambe le metà della sua famiglia, però, erano d’accordo su una cosa: l’antipatia per le guardie. D’altronde gli sbirri americani di provincia di solito sono “le persone peggiori con cui andavi al liceo che hanno provato a fare i pompieri ma non hanno passato le prove fisiche”.] Ovviamente ha ragione Emma Arnold: ella non ha avuto particolare libertà di scelta nell’intraprendere la strada dell’autarchia, ma è stata abbastanza brava da sublimare le sue circostanze e trarne il meglio possibile.
Arnold, come si può evincere anche dal titolo del suo speciale, è una di quei comici che trattano i loro monologhi come sessioni di terapia condivisa: momenti di sincerità disarmante in cui il talento per la comicità d’osservazione si rivolge su se stesso trasformandosi in un racconto intimo e in grado di suscitare simpatia, oltre che risate e imbarazzo da benpensanti tutte le volte che i tuoi archetipi fanno riaffiorare il pensiero inconscio che dice “omioddio una signora mamma di tre figli non le può mica dire certe cose, soprattutto con quel tono così mellifluo e dolce, il mio povero cervello non riesce a stare dietro a questa dicotomia e, come sempre, nessuno pensa ai bambini”. La comica montanara non sta certo pensando ai bambini quando racconta che “Stavo facendo un pompino natalizio a mio marito – succede, quando non sei brava a fare i regali: ti ho preso dei calzini, delle mutande e poi te lo ingoio da cima a fondo”; ma al contrario di tanti comici volgari e provocatori solo per il gusto di esserlo, per Arnold questo è l’incipit di un lungo bit in cui racconta, senza risparmiare dettagli fisici o (specialmente) emotivi, il kink che unisce lei – che certe volte si sente esperta come una prostituta francese novantenne – e il nuovo compagno che l’ha resa una persona in grado di credere nella serenità. Hanno parlato di Myself come di uno degli speciali comici più riusciti dell’anno. Sicuramente rappresenta l’occasione buona per conoscere e supportare una comica dalla voce cristallina e personale, che merita sostegno nella sua lotta autarchica.
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