CAR CHASE
L’inseguimento nel cinema di Friedkin è uno stato mentale. Non è solo il momento più eccitante per lo spettatore, la pièce de résistance del film: è la manifestazione esteriore del carattere e della condizione mentale dei suoi personaggi. William Friedkin non ha inventato i car chase moderni - a Bullitt, del 1968, viene in genere attribuito il merito - ma è stato il primo a sottrarli alla pura gratuità dello spettacolo visivo per trasformarli in momento essenziale della narrazione. Dalla folle corsa di Popeye Doyle in Il braccio violento della legge sotto la metro di superficie nella New York congestionata degli anni 70, fino alla “caccia lunga un film” di The Hunted - La preda in Oregon nel 2003, passando per gli anni 80 di Vivere e morire a Los Angeles su una highway in contromano all’ora di punta e i 90 di Jade, dietro una Thunderbird nera nella caotica Chinatown di San Francisco, queste spettacolari sequenze ci fanno sentire - come il terrorizzato Vukovich in balìa di Chance - seduti senza cintura dietro il guidatore, testimoni degli ingranaggi impazziti nella sua testa. Non sono mai fini a se stesse, ma raccontano le ossessioni e i percorsi interiori dei protagonisti. È forse paradossale che proprio in The Hunted, diventando protagonista, l’inseguimento finisca per perdere la sua potenza metaforica ed evocativa.
LA SOTTILE LINEA GRIGIA
L’ambiguità, il grigio, le zone d’ombra: la sottilissima linea di confine tra bene e male, esemplificata nella dicotomia poliziotto/criminale, è il sottotesto più affascinante del cinema di William Friedkin, fortemente radicato nella sua esperienza personale. Anche nel caso in cui lo scontro tra opposte concezioni del mondo è metafisico e l’esito sembrerebbe scontato, come nel vero director’s cut di L’esorcista (quello del 1973), resta quel piccolo margine di dubbio che ha spinto il produttore Blatty a chiedergli un finale più edificante. Perché al centro del miglior cinema di Friedkin c’è l’umanità di personaggi moralmente ambigui, divorati dai propri demoni, che a forza di giustificare i mezzi per perseguire i loro fini scavalcano l’invisibile barriera tra torto e ragione, restando quasi sempre vittime della propria tracotanza. È una visione della vita in apparenza pessimista ma mai deprimente, espressa in forma esaltante da un cinema larger than life: se la hybris stronca le velleità dei suoi protagonisti, lo fa sempre in modo grandioso.
IL DOPPIO
Fare dell’ambiguità una cifra stilistica porta con sé un corollario. Lo spettatore si trova stimolato da un cinema che provoca domande ma non offre risposte, nemmeno quelle codificate del genere. L’opera lirica, la Passione di Cristo e la tragedia greca amate da Friedkin sono accomunate dal tema del tradimento e del destino. Se nei suoi film ci sono due protagonisti è quasi certo che uno tradirà l’altro, ma è impossibile identificare il Giuda tra di loro. Il tema del doppio (e della doppiezza) attraversa come una corrente sotterranea opere molto diverse come Il braccio violento della legge, Cruising, Vivere e morire a Los Angeles, Jade, Regole d’onore e The Hunted. Tra due amici fraterni o stretti collaboratori, a soccombere è quasi sempre il presunto maschio alfa. Il tradimento produce echi e riverberi sugli altri personaggi, a cascata. È il gioco delle coppie secondo Friedkin, che osserva affascinato la difficoltà degli esseri umani a comunicare in modo sincero con chi sta loro accanto.
IL FATO
Un Fato beffardo osserva paziente gli sforzi dell’uomo e interviene solo per infrangerne i sogni di gloria: alla fine della storia le Parche recidono il filo e personaggi impegnati in sfide sovrumane si accasciano come burattini al termine di una rappresentazione. Il sacrificio è inevitabile e la sconfitta arriva quando l’obiettivo è vicinissimo e la liberazione a portata di mano. È questa entità a decidere le sorti dei protagonisti di Il salario della paura, per esempio, vanificandone i sacrifici: come spesso accade nella vita prima della resa dei conti, il viaggio è doloroso e gli errori non vengono riscattati.
Leggi l’Aurora di Marzia Gandolfi sull’incipit di Il salario della paura
LA VEROSIMIGLIANZA
La verosimiglianza è una caratteristica essenziale del cinema di William Friedkin: perfezionista e maniacale anche all’interno di una forma visionaria, il regista ha sempre perseguito un realismo che necessitava del massimo grado possibile di verità. I suoi film sono di frequente girati nelle reali location, con l’ausilio di consulenti tecnici che spesso diventano amici, attori e collaboratori stabili. E sono i migliori nel loro campo: sacerdoti, medici, tecnici, ex militari, addestratori dei Navy Seals, poliziotti in pensione e piccoli criminali in libertà vigilata garantiscono che ogni dettaglio sia accurato e perfetto. Se si parla di dollari contraffatti bisogna stampare banconote false con la tecnica utilizzata dai veri falsari, se si pratica un esorcismo il rituale deve essere quello autentico, se si combatte coi coltelli bisogna farlo secondo una tecnica ben precisa. Un amore per il dettaglio che non perde mai di vista il quadro d’insieme e che il pubblico percepisce a livello subliminale.
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