Gli amici di Philby

La più incredibile storia di spionaggio di tutto il Novecento è quella che vede protagonista Kim Philby. Famiglia agiata, educazione importante, college a Cambridge, apprendistato giornalistico e reclutamento nel servizio segreto britannico allo scoppio della Seconda guerra mondiale. Ma lui era già, fin dalla gioventù, un marxista leninista che il KGB trasforma nella più stupefacente spia del secolo. Sospettano di lui gli agenti dell’MI5 quando si scoprono spie sovietiche altri due studenti di Cambridge del suo corso, Donald Maclean e Guy Burgess, ma i colleghi dell’MI6 non ci credono e insabbiano. Solo dieci anni dopo, e grazie a un “suggerimento” israeliano, la maschera cade definitivamente e lui è costretto a scappare a Mosca, via Beirut.

Una spia tra noi, serie scritta da Alexander Cary e diretta da Nick Murphy, non è però la storia di Philby che pure è molto ben interpretato da Guy Pearce, bensì del suo collega, e amico da anni, Nicholas Elliott, un magistrale Damian Lewis. È lui a essere mandato a Beirut con una proposta che Kim non può rifiutare: deve accettare di sparire sotto falso nome in qualche recondito angolo di Inghilterra o Scozia, e in cambio nessuno lo perseguirà. Andrà diversamente. Elliott salva Philby? Vi lasciamo scoprire se è proprio (stato) così, qui ci interessa sottolineare questo. La serie sconta un incedere meditabondo, con poca azione, ma è scritta benissimo e i conflitti sono soprattutto psicologici. Le spie dell’MI6 sono prigioniere del pregiudizio di classe e temono le intromissioni dei cugini americani, mentre a indagare (anche su Elliott) è la piccoloborghese Lily Thomas, scarpe grosse e cervello fino, schiacciata però dalla dominante mentalità machista e snob.

Non è né un personaggio di moda né una suffragetta, bensì una funzionaria dell’MI5 che capisce i dubbi di Elliott, il suo dilemma interiore, ma non è detto che lo giustifichi. In questa trama, tra questi uomini e queste donne, ci sono decenni di letteratura, da Graham Greene, che di Philby fu amico come Elliott, a John le Carré, che a questa storia si ispirò per il suo romanzo più celebre e bello, La talpa, fino a Frederick Forsyth, il più visceralmente anticomunista che riverserà tutto il suo disprezzo per i traditori (Kim non si considererà mai tale, solo che era fedele all’Urss) in quella perla che è Il quarto protocollo (1984). In montaggio alternato, tra un prima e un dopo cronologici, anche i mesi iniziali di Philby a Mosca prima di diventare (questo nella realtà) come il Keaton dell’omonima canzone di Francesco Guccini, alcolizzato e assorto, descritto da Yuri Andropov in una sua memoria come una specie di clochard. Ebbe comunque, nel mondo comunista, più di un momento di gloria, una nuova moglie, qualche riconoscimento e non si pentì mai della sua scelta perché il suo scopo, disse, «era combattere l’imperialismo con tutte le mie forze». Poco prima di morire, nel 1988, confesserà di non avere rimpianti e che le sole nostalgie nei confronti dell’Inghilterra erano per gli amici, la salsa Worcestershire e la mostarda Colman’s.

La serie tv