La 76a edizione del Locarno Film Festival si apre mercoledì 2 agosto 2023: il programma è come sempre ricchissimo, vario, complesso, una vera sfida per lo spettatore. Ne abbiamo parlato con il direttore, e collaboratore di Film Tv, Giona A. Nazzaro.
La prima domanda è quasi inevitabile: cosa significa, con tutto quello che sta succedendo nel mondo del cinema, fare un festival nel 2023?
In questo momento l’industria cinematografica sta vivendo una fase d’assestamento. I segnali c’erano già nel 2019, quando l’intera filiera era la stessa di sempre e si poteva immaginare che qualcosa sarebbe successo. La pandemia ha poi messo in discussione il fatto stesso di poter stare insieme per fare e vivere il cinema, su un set, in sala, in un festival. Il COVID-19 ha rivelato la fragilità strutturale di un sistema che era già nel XXI secolo, ma che si muoveva come se fosse nel passato. Quello che vediamo oggi, gli scioperi di sceneggiatori e attori a Hollywood, è parte di tale movimento che viene da lontano.
E in tutto questo come si muove Locarno?
La rassegna è l’espressione di un paese che, se non fosse per quei film di cui tutti parlano, vivrebbe anche lui la crisi della sala. L’evento festivaliero, invece, continua ad avere successo e per noi questo rappresenta una sfida, perché ci spinge a chiederci come mantenere vivi l’interesse e il potenziale. Negli anni 90 Locarno fu il primo a mostrare come un festival doveva cambiare, accogliendo formati nuovi, aprendosi al video, assumendo uno sguardo diverso verso i blockbuster, comprendendo come il cinema d’autore era cambiato, e al tempo stesso guardando al passato. Mi rendo conto che è tutto molto generico, ma i nodi da sciogliere sono ancora questi: oggi Locarno è parte di un sistema che ripensa a sé stesso e che si fa domande sulla destinazione dei film, con il compito di restare al fianco dei festival più grandi.
A giudicare dal Concorso si direbbe che ci riesca: la selezione apre al mondo intero, ma alcuni autori sono tra i massimi del cinema contemporaneo...
L’espressione “cinema d’autore” rischia di essere esclusiva, perché ogni film, in realtà, anche quando non considerato d’autore, è pensato, scritto e fatto da qualcuno... Non c’è dubbio, però, che registi come Radu Jude, Lav Diaz, Eduardo Williams, Quentin Dupieux siano autori importanti, che amiamo e conosciamo e che dicono qualcosa sul cinema, sulla contemporaneità, sulla possibilità di pensare il mondo con le immagini o di contaminare le immagini con le idee e i drammi del mondo. La nostra non è una difesa d’ufficio del cinema d’autore, ma la scelta di film che esprimono una visione forte della realtà.
Puoi dirci qualcosa dei film di Jude e Diaz?
Il film di Jude, Do Not Expect Too Much From the End of the World, per il quale abbiamo dovuto lottare tanto, è l’opera di un pensatore; i suoi ultimi 45 minuti sono tra le cose più irresistibili, a livello d’invenzione comica, e al tempo stesso disperanti viste di recente. È un film profondamente radicato nel pensiero rumeno, che sa essere amaro e autoironico, quasi disperato nei confronti del proprio paese. Il film di Lav Diaz, Essential Truths of the Lake, è invece un grande romanzo ottocentesco: la storia di un poliziotto che riflette su ciò che ha fatto durante le purghe contro il narcotraffico di Duterte. Una visione profondamente ecologica su come cambiano gli equilibri del mondo.
Simone Bozzelli, regista dell’opera prima Patagonia, diplomatosi in due scuole di cinema italiane e poi premiato dalla SIC di Venezia 2020, è una scoperta vera...
Simone Bozzelli è la più grande notizia che il cinema italiano abbia avuto da tempo: al cinema italiano la responsabilità di proteggerlo e di fargli fare i film che vuole. Lui ha una visione del mondo tutta sua, per fortuna non allineata con la nostra, che crea la differenza del suo cinema. E il cinema nasce sempre da una differenza. Anche Annarita Zambrano, regista dell’altro titolo italiano in concorso, Rossosperanza, ha fatto un film unico: un vero atto di sovversione. Lasciami poi dire una cosa a proposito delle scuole di cinema. Da tempo hanno acquisito un ruolo importante, e io credo che una cosa l’abbiamo capita: e cioè che un regista non può insegnare ai suoi allievi a fare cinema come lo farebbe lui. Bisogna insegnare e lasciare liberi.
A proposito di giovani registi, qual è il ruolo della sezione Cineasti del presente nel programma di Locarno?
Cineasti del presente è il cinema: sembra una frase puramente promozionale, ma sono convinto che se qualcuno venisse a Locarno e vedesse solamente i 15 film della sezione, se ne andrebbe fluttuando sulla nuvola dell’entusiasmo cinefilo. Sono film che dimostrano che è possibile essere creativi, appassionanti, politici e filosofici rispetto alle immagini in movimento. Sono molto orgoglioso del lavoro fatto, perché con l’attuale sistema dei finanziamenti oggi è relativamente facile produrre opere prime, ma è difficile capire quali sono le opere prime capaci di lasciare il segno. Cineasti del presente è un luogo di straordinaria disobbedienza, in cui si manifestano alcuni sguardi appassionanti: non seguendo radicalismi stilistici banali, ma con atteggiamenti che fanno pensare a stagioni passate.
Quindi è in linea con la retrospettiva sul cinema popolare messicano, Espectáculo a diario, che presenta uno sguardo sulla produzione tra gli anni 40 e 60?
Le retrospettive si fanno per due motivi: perché ci piace rivedere i film dei registi che amiamo, per vederli in condizioni ideali e ridiscuterne, o perché un autore famoso, come Sirk lo scorso anno, presenta aspetti ancora poco noti. Nel cinema messicano ci sono nomi che tutti conoscono e che rappresentano le punte del sistema (Roberto Gavaldón, Fernando de Fuentes, Emilio Fernández), ma a me interessava la parte meno nota, quella popolare, che ha costruito l’identità di un popolo e consentito ad alcune figure di diventare famose anche a Hollywood. Preferivo mostrare film, diciamo, minori, rispetto ai capolavori noti, perché volevo capire come da un cinema popolare, fatto per essere visto e consumato da classi poco abbienti, fosse emersa un’identità culturale, politica e produttiva multipla.
Al tuo terzo anno di direzione pensi di essere riuscito a fare quello che ti eri prefissato dall’inizio, e cioè dare alla manifestazione un’identità aperta, radicata non solo nel cinema da festival?
Oggi il problema non è difendere posizioni del passato, ma chiedersi cosa far vedere e perché. E poi far capire come i film che si fanno vedere si collocano nelle idee attuali del cinema. Questo non significa che a Locarno presentiamo un po’ di tutto, ma piuttosto che cerchiamo di rilanciare la centralità dello sguardo e del criterio di selezione. Noi vogliamo creare una rete di sguardi - magari con pochi aspetti in comune l’uno con l’altro - che mostri una serie possibilità: discorsi, sguardi, riflessioni. Il cinema serve a qualcosa? Sì, serve a spezzare, a “discontinuare”, l’immagine ufficiale del mondo.
Qui trovate il nostro speciale Locarno 2023 con tutti i film delle principali sezioni.
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