Il 13 luglio è uscita su Netflix una serie che si chiama Michelle Buteau: Survival of the Thickest e che è particolare per molti motivi. Innanzitutto per il titolo, che nella versione italiana flexa il nome della creatrice e interprete principale della serie, Michelle Buteau (pure autrice dell’autobiografia che lei stessa ha romanzato per la tv), anche se la protagonista non si chiama mica Michelle Buteau bensì Mavis Beaumont. Gloria ora e sempre al riconoscimento degli autori, ma in questo caso probabilmente abbiamo un po’ esagerato.

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Michelle Buteau: Survival of the Thickest (2023) locandina

Survival of the Thickest è particolare anche perché sarebbe stata senza sforzo la più interessante sitcom dell’anno, se non fosse che Buteau e la sua co-creatrice Danielle Sanchez-Witzel hanno deciso di fuggire da quel tipo di linguaggio, per ricercarne uno più “alto” che si adeguasse meglio a una narrazione orizzontale. Insomma, qualcuno in fase di produzione ha detto “io i cinepanettoni e le sitcom non li guardo perché sono dozzinali, dunque dovremmo fare qualcosa di meno intellettualmente degradante”. Anche per questo, e infine, Survival of the Thickest è particolare perché è una serie brillante che racconta uno spicchio di contemporaneità da un punto di vista diverso, mettendosi vagamente sulle tracce di titoli molto belli (un esempio potrebbe essere quella meraviglia di Insecure).

Michelle Buteau
Michelle Buteau: Survival of the Thickest (2023) Michelle Buteau

Il punto di vista diverso non è tanto quello di una star il cui corpo è “a forma di emoji della coscia di pollo”, quanto quello di una donna che non risponde a certi canoni estetici imposti dal mercato dell’intrattenimento (e oltre) e dalla sessualizzazione del corpo femminile, ma che decide di reagire a questo scollamento (tra la sua propria realtà di autostima e la società che tenta di affossarla) tatuandosi all’interno del cranio il mantra I am worthy, I am perfect, I am enough. Sono degna di valore, sono perfetta, sono abbastanza. Non un motto ripetuto tanto per dire, né una convinzione a cui semplicemente aspirare, bensì una realtà personale ben strutturata attraverso la quale modellare e filtrare l’esperienza del mondo. Che è forse l’unico insegnamento buono rimasto tra le macerie del sogno americano: in certe condizioni, il mondo risponderà non a ciò che sei oggettivamente, ma all’immagine e all’essenza che vuoi proiettare. La volontà di essere e la potenza del sentire possono aggirare la realtà fenomenica.

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Michelle Buteau: Survival of the Thickest (2023) scena

Da questo umo fertile e moderno nasce la voce comica di Michelle Buteau, classe 1977, attiva come stand-up comedian dal 2001, ma in grado di emergere su palcoscenici a disposizione del grande pubblico solo negli ultimi anni, quando il mercato statunitense ha imparato (adattandosi allo zeitgeist e dunque semplicemente annusando la scia dei soldi) a non badare più di tanto all’aspetto di una performer e agli stereotipi estetici a cui risponde. Non è un caso che Netflix le abbia consegnato la conduzione del reality The Circle – esperimento sociale in cui diversi concorrenti interagiscono solamente tramite i rispettivi social network, tramite i quali possono presentarsi (piegando la realtà) come meglio credono – ancor prima di ospitare sulla piattaforma il suo speciale comico, Michelle Buteau: Welcome to Buteaupia.

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Michelle Buteau: Welcome to Buteaupia

In tutto questo sembra che il monologo di Buteau sia la faccenda meno interessante di tutta l’operazione, quando invece è semplicemente quella più solida, navigata e rispettosa di una certa tradizione. Welcome to Buteaupia è un gran spettacolo di stand-up sfacciata – c’è un momento, in cui si festeggia l’orgoglio del prepuzio, che farebbe arrossire anche il marinaio più esperto – in cui l’irresistibile insolenza da afro-caraibica del New Jersey di Buteau emerge in purezza. E soprattuto è uno stand-up cesellato da un’esperienza più che ventennale nei locali rigorosamente fumosi in cui i comici da battaglia si esibiscono per fare legna, imparare la propria arte e dando forma alla propria voce.

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Michelle Buteau: Welcome to Buteaupia

Quei vent’anni e più di gavetta hanno contribuito ad ammantare Buteau di un’aura carismatica fondamentale; e quando dice “Non posso lamentarmi, ma adoro farlo” diventa il manifesto di una generazione di quarantenni cresciuti con i vecchi modi e ritrovatisi improvvisamente, a trent’anni, con la possibilità e la libertà di dire che no, effettivamente questa cosa non mi sta bene e vorrei non sopportarla più, anche se i nostri genitori boomer ci hanno cresciuto con lo stoicismo a tutti i costi (per quanto riguarda quelle che per loro erano baggianate, tipo l’autostima e la salute mentale). Solo quindici anni fa, Buteau avrebbe nicchiato di fronte a un dirigente televisivo che le dicesse “sei troppo grassa e hai troppa personalità per piacere a un grande pubblico”. Oggi, le persone che non rispondono ai velleitari canoni di perfezione hanno una voce in capitolo. C’è molto orgoglio e altrettanta catarsi nell’essere “La versione di Beyoncé che possono permettersi gli impiegati statali” e nell’accogliere umoristicamente gli applausi del tuo pubblico ringraziando e commentando con un “Mi fate sentire come una taglia 40”.

Autore

Nicola Cupperi

Scrive per FilmTv perché gliel'ha consigliato il dottore. Nel tempo libero fa la scenografia mobile. Il suo spirito guida è un orso grigio con le fattezze di Takeshi Kitano.