Sam Levinson è un autore reazionario. Non è qualifica da intendersi in senso automaticamente negativo: è reazionario perché le sue storie e i suoi personaggi cercano le ombre, le prospettive più scomode, fastidiose, scandalose delle questioni che polarizzano il dibattito pubblico, e che a quello stesso dibattito vogliono reagire mettendolo in crisi e complessificandolo, per mezzo di un’autoanalisi (Malcolm & Marie) o di una parodia deforme (Assassination Nation).
Levinson questo “bastiancontrarianesimo” lo ostenta, ne va fiero, perché per lui mettersi al centro del bersaglio, essere divisivo, è il punto. Lo dichiara nella serie HBO Euphoria: «L’arte dev’essere pericolosa». L’arte deve spingersi oltre la legge, provocare domande al di là del lecito e dell’ammissibile. Su carta, The Idol è un passaggio coerente con l’opera cinetelevisiva levinsoniana, posta in antitesi ai prodotti politicamente, e dunque narrativamente, accettabili. In partenza, nel 2021, Levinson è sceneggiatore con Reza Fahim e Abel Tesfaye alias The Weeknd, mentre regista e produttrice esecutiva è Amy Seimetz (She Dies Tomorrow). Che dirige l’80% della serie e poi lascia la produzione, rea d’aver dato al racconto un punto di vista «eccessivamente femminile».
Levinson gira lo show da capo e Tesfaye si regala il ruolo chiave di Tedros, homme fatale che irretisce e manipola la popstar Joss (modellata su Britney Spears, ma pure, sembra, su Selena Gomez, ex del cantautore canadese). Un grosso problema: perché se Lily-Rose Depp è straordinaria in un ruolo che più ingrato non si può (Joss è vittima, anzi no carnefice, forse ingenua, anzi spietata neon demon, e via di voltafaccia narrativi), la sua co-star non è mai capace di sedurre e, perciò, di disturbare il nostro sguardo, di incrinarne la morale. The Idol conserva, di Levinson, l’energia ossessiva del filmmaking (in multicamera) e la direzione attoriale magistrale - un cast perfetto: Troye Sivan è una rivelazione, Rachel Sennott sempre una presenza fra le più interessanti del cinema recente, Da’Vine Joy Randolph una forza irresistibile, Eli Roth e Hank Azaria alludono a eccitanti virate thriller. E, almeno come autore della colonna sonora, The Weeknd è indiscutibile (e Take Me Back fra i suoi brani migliori di sempre). Ma le cartucce si fermano qui.
Convinto che non si possa più dire niente, The Idol vuole dire di tutto, e programmaticamente: per esempio, che annientare la reputazione di un uomo fingendo uno stupro è fin troppo facile, o che il controllo dei corpi (intimacy coordinator e affini) è una sciocchezza puritana. Allora che cosa ci raccontano, i cinque episodi di The Idol? Le modalità con cui l’industria musicale crea ad hoc idoli per le masse, e con cui li distrugge, come accade al personaggio della cantante Jennie Kim (a sua volta assoggettata alle tenaglie feroci del mercato k-pop)? Le oscillazioni delle dinamiche di potere in una coppia? Le irriducibili perversioni dello showbusiness? Il dietro le quinte di una setta contemporanea? Il fatto che l’arte vada separata dall’artista, perché gli artisti sono tutti vipere e orchi? Nella confusione di scrittura, un solo dato emerge con chiarezza: a dispetto dei desideri dei suoi autori, The Idol è tutto meno che pericoloso.
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