Una questione di sproporzione. Si chiama Kuti, per paradosso lo chiamano Cootie (che sta per “pidocchio”), e non è esattamente cutie, tenero, puccioso. È un afroamericano di 19 anni, alto quattro metri, accudito e cresciuto fuori dal mondo (in un capannone/casone a sua dismisura) da due (presunti?) zietti, disciplinato dall’esercizio fisico, nell’alimentazione e nella dieta culturale (con la concessione di un fumetto giustizialista, The Hero), ad attendere con educato rigore il giorno in cui la gente l’avrebbe scoperto, amato, sfruttato, odiato, come da copione da mostro, freak, diverso. Un giorno in cui - avrebbero voluto i suoi amabili tutori (che fanno anche le veci di quel che Q è per James Bond) - avrebbe potuto fare la differenza.
Una differenza sociale e culturale. E armata, quantomeno. Ma Cootie, che sente prima di tutto il prurito dell’adolescenza (ma non solo quello), esce allo scoperto prima del dovuto: trova degli amici (di cui una, Jones, è un’attivista anticapitalista dotata di doti retoriche letteralmente spettacolari), un amore (Flora, che percepisce il tempo lentissimamente e dunque deve rallentare se stessa per muoversi a tempo con l’intorno e farsi comprendere dal prossimo), un lavoro da testimonial demente, una setta di ritardati che lo scambia per il proprio Messia (un dio Polifemo), dei lillipuziani perché in fondo ogni Gulliver deve avercene un po’, e un nemico che credeva il proprio eroe, pardon: The Hero. E dunque questa serie in sette episodi da 25 minuti circa - che segue l’esordio del rapper Boots Riley, il bellissimo e paradossale pamphlet politico Sorry to Bother You - è un coming of age XXL dentro a un realismo decisamente isterico (tanto che David Foster Wallace è omaggiato da un possibile Infinite Jest animato), una satira politica con tanto di caricature alla lettera, un’allegra allegoria dei mali del mondo.
Il tutto messo in scena come l’omaggio maggiormente sentito al formidabile genio di Michel Gondry che si sia mai visto su grande e piccolo schermo, perché se nel precedente il francese era citato (ribaltato in “Michel Dongry”), qui è l’alfabeto alla base d’ogni cosa, Hitchcock per De Palma, Bresson per Kaurismäki, il libro delle istruzioni, l’arte del sogno e del mondo, un filtro “come l’avrebbe fatto lui”, che si concede cameo (il boia “gentile” Elijah Wood) e non dimentica le opere presunte minori (Pecan Pie, The We and the I, The Green Hornet). Nel titolo, invece, c’è il suo manifesto d’intenti politico: ogni personaggio fallisce (amabilmente, tragicamente, sproporzionatamente) nella percezione di sé (per Cootie non conta tanto essere un gigante quanto esser, per l’appunto, del segno della vergine), perché alla base c’è un rincoglionimento ideologico, l’incapacità di capire (proprio come in Sorry to Bother You) la sovrastruttura (capitalistica) di cui siamo fatti (c’è un cameo cartoon di Slavoj Žižek, mica a caso), in una serie che sfrutta (situazionismo? Falso movimento?) i turbocapitali e il potere di diffusione di Amazon. Vedetene tutti. Parla di voi (anche se non lo percepite).
La serie tv
Sono vergine
Fantasy - USA 2023 - durata 26’
Titolo originale: I'm a Virgo
Creato da: Alec Gillis, Tom Woodruff Jr., Boots Riley
Con Jharrel Jerome, Rachel Thurow, Brett Gray, Varsha Chand, Walton Goggins, Lindsey G. Smith
in streaming: su Amazon Prime Video
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