Ai doppiatori e adattatori italiani io ci voglio lo stesso gran bene che posso volere alla Festa del broccoletto di Custoza, che per quattro giorni all’anno celebra un prodotto tardivo che si raccoglie per poche settimane esclusivamente in un fazzoletto di territorio che circonda una frazione di milledugento persone scarse. I doppiatori e adattatori italiani sono una preziosa singolarità culturale che va conservata, ammirata e studiata, forse anche imbalsamata, ma quasi certamente non frequentata ogni singolo giorno dell’anno.
Non per fare il pesantone o quello che prende i membri e li affila con il temperamatite, ma tutto quello che il doppiaggio aggiunge in comodità e in possibilità di concentrarsi sulle immagini, sui dettagli della messa in scena e sull’espressività degli interpreti, poi lo toglie per quanto riguarda le sfumature linguistiche, i toni, la ricchezza dei colori, le intenzioni degli autori originali. E lasciamo perdere le lingue che nessuno di noi parla – anche se, ci metto l’orecchia sul fuoco, guardare un film sottotitolato recitato in una lingua che non conosci è comunque un’esperienza più ricca (secondo me) rispetto a vederlo doppiato: è impossibile, per esempio, adattare in italiano le tonalità e gli andamenti musicali delle frasi pronunciate in tanti idiomi asiatici. Concentriamoci piuttosto sulle lingue che conosciamo a causa della fitta esposizione, che abbiamo una chance di comprendere vagamente, ma che sono fondamentalmente inadattabili in italiano per questioni culturali, sociali, storiche. Questa settimana testiamo il nostro swag addentrandoci nel campo minato dell’inglese afro-americano vernacolare, quello che nel famigerato doppiaggese diventa, negli adattamenti italiani, una lingua inesistente su cui ha già detto praticamente tutto Edoardo Ferrario.
È spuntato su Netflix un roboante speciale intitolato 85 South: Ghetto Legends, culmine di un progetto messo in piedi da tre comici afro-americani – dal più giovane e celebre sui social a quello con più peli bianchi nella barba e più esperienza nei media tradizionali: DC Young Fly, Chico Bean e Karlous Miller – che è partito come podcast, si è evoluto come spettacolo dal vivo itinerante a toccare le comunità nere di tutti gli Stati Uniti e ha fatto abbastanza onde da meritarsi un posticino tutto suo nel catalogo della grande N rossa che fa tudum. Di solito, gli speciali di stand-up anglofoni che vi proponiamo sono faccende in cui i sottotitoli in italiano fanno il loro ottimo porco lavoro nel chiudere il gap linguistico, riuscendo a rispecchiare abbastanza fedelmente (direi con un buon 90% di efficacia) il senso comico della battuta che viene tradotta e, a volte, anche adattata. Luttazzi ci ha perso la carriera a tentare di spiegare l’affascinante processo necessario a trasportare con profitto una battuta da una lingua all’altra. E per la maggior parte degli stand-up comedian stranieri basta una spolverata di inglese e un buon tasso di fiducia nei sottotitoli per confermare la comprensione.
Il caso di 85 South: Ghetto Legends è diverso. DC Young Fly, Chico Bean e Karlous Miller attingono a un vernacolo ben preciso, che afferisce a una cultura ben specifica, che loro tre possono definire come proveniente dal ghetto, mentre noialtri (che nel ghetto ce li abbiamo messi) dovremmo giustamente girarci intorno. È una variante dell’inglese americano che si nutre del suo contesto e della sua storia, che si evolve e si arricchisce con facilità e che se si prova ad adattare in doppiaggese fa uscire delle fetecchie che nessuno ha mai sentito pronunciare a nessun altro essere umano in carne e ossa. 85 South è una finestra spalancata su una cultura che ci piace saccheggiare, ma che ci dispiace approfondire. Che è bella da citare, da indossare, da farsi tatuare e da ostentare, ma che quando c’è da imparare a conoscerla come si deve improvvisamente ci pesa troppo il culo. Lungi dall’eleggere come ambasciatore culturale uno spettacolo comico in cui viene fatto notare svariate volte che il pubblico femminile ha la fagiana puzzolente, la visione di 85 South è al 100% consigliata a chiunque abbia voglia di vedere qualcosa di diverso dal solito e a chiunque non abbia paura di imparare anche due o tre cose mentre sgrana gli occhi dallo stupore per certe volgarità, al contempo pisciandosi addosso dal ridere. D’altronde, la scuola comica da cui arrivano DC Young Fly, Chico Bean e Karlous Miller è quella del dissing e del roasting – selvagge sfide di prese per i fondelli – resa celebra da programmi come Yo Momma (il titolo dice tutto) e Wild ‘n Out.
Nel loro speciale di arte varia quasi totalmente non sceneggiato e spontaneo, i tre dell’85 South ballano, cantano, suonano, se la raccontano e ospitano amici rapper (Rich Homie Quan, i Goodie Mob) che performano un paio di canzoni insieme a loro. Parlano di erba; anzi, chiedono al pubblico di lanciare sul palco dell’erba. Parlano di come ti rubano in macchina in maniera diversa a seconda di quale quartiere di Atlanta frequenti. Parlano di Tyler Perry. Hanno una big band che non smette mai di accompagnarli con un sottofondo liscio come il culetto di un bambino, ma loro li prendono comunque per il culo: fa parte del gioco, e oltretutto vincono facile visto che nel complessino c’è un nero enorme che suona la tuba, immagine che non sarà mai non divertente. Improvvisano per tutto il tempo con un’energia che sarebbe quasi estenuante, se non fosse così coinvolgente (difficile immaginare la soddisfazione e le vibrazioni nell’assistere dal vivo a uno spettacolo del genere).
DC Young Fly, Chico Bean e Karlous Miller si prendono per il culo a vicenda, senza risparmiarsi e senza prendere fiato – hai il fisico di un fumatore di crack in salute; sembri un tergicristallo; sei uno di quelli che va a nuotare completamente vestito; la tua camicia indossa una camicia; hai il fisico di uno che ha imparato a camminare due anni fa; hai il fisico di una delle mie treccine. Prendono per il culo il pubblico, senza risparmiarsi. Fanno riferimenti a rapper che, anche impegnandoci, non potremmo neanche far finta di conoscere prima di averli cercati su Google. Parlano di Get Out (senza nemmeno bisogno di nominarlo) con l’unica donna bianca presente nel pubblico. Fanno crowd work degni dei migliori wrestler, infiammando gli spalti senza concedere nemmeno un secondo per rifiatare. Flirtano e ballano con una signora anziana in platea. In un’ora succede tutto e il contrario di tutto. Non ci sono regole in Ghetto Legends. Solo il bisogno di lasciarsi andare, solo la voglia di ridere, ridere. E prendersi gioiosamente per il culo.
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