Esiste la voce comica reazionaria? A parte Donald Trump e il suo gran maestro barzellettiere Berlusconi, si intende; che poi sono due che non hanno propriamente una voce comica, ma sono comici in sé e per sé senza bisogno di imparare una tecnica. Ma quel che mi interessa sapere è: esiste lo spazio per unə comicə che quando scopre di essere statə definitə “unə comicə” impazzisce? Un/una performer che dedica un set intero a scherzare su tutte le più innocenti istanze di progressismo che cozzano con la sua tradizione? Unə stand-up comedian, insomma, che sembra negare l’archetipo dei locali rigorosamente fumosi dei bassifondi, in cui nasce una voce comica che più è provocatoria nei confronti dello status quo e più è vera, sincera e divertente? Quante domande retoriche una dietro l’altra.
Certo che esiste, certo che c’è lo spazio. La comicità, quando non viene brandita da bulli e violenti (e smette di essere comicità), è uno dei posti in cui l’inclusività si sente più a suo agio. E questo è vero solo nell’iperuranio delle forme ideali. Nella pratica, molti performer di stand-up costruiscono la propria voce comica in maniera escludente, per parlare il più efficacemente possibile a un pubblico ben specifico; un po’ come i giapponesi che suddividono il mercato dei manga in fasce d’età che categorizzano i toni e gli argomenti di questo o quel fumetto. Ma in buona sostanza, quale che sia il motivo (se quello pratico o quello ideale), la risposta alle domande retoriche di cui sopra è sempre quella. C’è spazio per tutti. Allora la domanda è un’altra: fa ridere una voce comica reazionaria, anche se non sei di quella parrocchia ideologico-filosofica? Dipende dal comicə. Se sei Zarna Garg, hai vinto una competizione fra comici esordienti (Lyft Comics) patrocinata da Kevin Hart, sei stata citata da Hillary e Chelsea Clinton nella serie che presentano su Apple TV (Gutsy) e hai da poco pubblicato il tuo primo speciale (Zarna Garg: One in a Billion) su Prime Video, allora sì. Per gli altri, tenderei a non mettere mani sul fuoco a priori. Ovvero: leggere One Piece a 30 anni va ancora più che bene, essere adulti ed essere ossessionati dai manga con i piccoli problemi di cuore delle quindicenni un po’ meno.
D’altronde, e come diceva l’asceta Corinna da Cagnapolis, Zarna Garg ha gli anni che ha. Per la precisione 48. E com’è che si diventa comiche di stand-up una volta superati i 45 anni? Bisogna prima rifiutare un matrimonio concordato a 15 anni, poi svoltare la fortuna di avere una sorella negli Stati Uniti che ti ospita per sfuggire all’ira dei genitori delusi, quindi prendere una laurea in legge che risulterà inutile, successivamente sposare una persona che ti sei scelta, indi fare per 23 anni la mamma e la casalinga, e solo dopo tutto questo serve essere brave, serve sbattersi e soprattutto serve avere tre figli grandicelli nati e cresciuti negli USA che ti spingono ad aprire un account di TikTok e a fare una cosa che, se da adolescente a Mumbai l’avessi confessata come ambizione ai tuoi genitori, saresti finita appesa per le mutande al ramo più alto dell’albero più vicino – “Ero curiosa di sapere se fosse una cosa solamente indiana, allora una volta l’ho domandato a una mamma cinese. Le ho chiesto: “Mamma cinese, tu dici ‘sogni d’oro’ ai tuoi figli?” e lei mi ha guardato e ha detto: ‘Cos’è un sogno?’”.
Ho un amico di 64 anni che l’altro giorno, riferendosi a un ragazzo nero che conosciamo, mi ha detto “Non lo vedo, eppure è così nero che dovrebbe risaltare. O non c’è, oppure nel frattempo si è stinto” mentre a questa conversazione partecipava anche una ragazza mulatta. Una roba che se succedesse su Twitter o a portata d’orecchi benpensanti e proni all’indignazione, apriti cielo. Tutta una perifrasi per raccontare che Zarna Garg dice esattamente tutte queste cose che di solito escono dalla bocca di quel tuo amico che dice cose razziste senza sapere che sta dicendo cose razziste (un razzismo in buona fede, non so se esiste e non so se mi spiego). Garg dice cose come “Non ci sono problemi di salute mentale in India. Siamo ancora alle prese con il colera” e “Siamo persone pratiche, non ci pensiamo nemmeno a fare cene a lume di candela. Perché dovremmo? Siamo venuti negli Stati Uniti per avere l’elettricità”. E badate che questi esempi servono solo per descrivere più graficamente gli argomenti e le angolazioni scelte da Garg, non per giudicarla nel merito. Anche perché altrimenti sarei stupido come Vittorio Feltri che non si fa problemi a dire “negro” perché tanto anche i neri se lo dicono l’uno con l’altro.
Garg parla della vita da trapiantata in un altro paese a modo suo – “Non vogliamo il “e vissero felici e contenti”. Vogliamo il massimo dei voti al test d’ingresso per l’università e vogliamo un’estetista per le sopracciglia che non rinunci perché è troppo faticoso” – e soprattutto racconta il rapporto tra la prima (la sua) e la seconda generazione di immigrati (i suoi figli). Quelli che in gergo vengono chiamati dai loro genitori A.B.C.D.‘s, American Born Confused Daisies, ovvero margherite confuse nate in America: delicati fiori di campo che si lamentano in continuazione di quanto i loro genitori, zii e nonni pretendano da loro e di quanto questi vecchi siano severi, ambiziosi, ossessionati da istruzione, soldi, carriera e posizione sociale. Lei vorrebbe cambiare il significato dell’acronimo in Always Bitching and Complainings Dumb-dumbs, scemotti che si lamentano e frignano sempre. Gli A.B.C.D’s, invece, chiamano i loro vecchi FOB, Fresh Off the Boat, appena sbarcati. Come a dire che, non essendo nati negli Stati Uniti, non sono ben consapevoli di come funzioni quella società. Garg ribatte che FOB dovrebbe significare Full of Benjamins, pieni di centoni, dimostrando che anche i matusa immigrati da adulti hanno dimestichezza con lo slang locale.
Lo speciale di Garg ha un ritmo di battuta molto rapido, che assomiglia al formato dei social su cui la comica ha trovato successo all’inizio della sua carriera, ma che ricorda da vicino anche il martellamento tipico della sitcom. Senza contare il grande utilizzo di rimandi, anche ripetuti più e più volte; quasi a voler creare dei tormentoni portatili, che gemmano nel corso del monologo e alla quarta o quinta ripetizione (in contesti sempre diversi) danno al pubblico quella sensazione di famigliarità che crea complicità. Una formula comica, anche questa, molto simile a quella delle sitcom. Un impianto di stand-up brillante e azzeccato, perfetto per una comica brillante che ha azzeccato i modi e i toni per essere divertente su un palco senza negare il suo bagaglio personale e la sua storia.
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