Di solito le cose stanno bene insieme a coppie. Io & te (occhiolino occhiolino), il cacio sui maccheroni, il vino bianco ghiacciato con il pesce, Stanlio e Ollio, Craxi e le monetine, Pio e Amedeo con una divisa da carcerati, i Me contro Te contro la guardia di finanza. Dev’essere questione di gravità e di dinamica, robe di fisica meccanica che non pretendo di capire ma che ho letto, spiegate semplici, nel bel romanzo di fantascienza di Liu Cixin Il problema dei tre corpi: in un sistema binario, l’interazione tra i due corpi è perfettamente prevedibile; in un sistema a tre, invece, l’influsso della reciproca attrazione gravitazionale fra un corpo e l’altro rende molto complicate (virtualmente impossibili) le previsioni sui comportamenti degli oggetti. Difficilmente tre cose ci azzeccano vita natural durante. Aldo Giovanni e Giacomo sono comunque partiti che erano Giovanni e Giacomo e oggi si rilassano ognuno per i fatti propri; il signor Carlo ha lasciato la Gialappa’s Band; i Trettré se qualcuno li ha più visti o sentiti mandi una foto in cui tengono in bella vista il giornale di oggi, grazie. L’unica trimurti davvero funzionante a cui voglio pensare (pane burro e marmellata non posso perché ho sia la glicemia sia il colesterolo parecchio alti) è anche quella che, nella seconda metà del ‘900, ha fatto i regali migliori al linguaggio, alla libertà di espressione e alla possibilità di avere un intrattenimento differente.
Parlo di stand-up, di hip hop e di spoken word. Tre modi di intendere l’espressione artistica e l’intrattenimento, tre giochi con le parole, tre linguaggi uguali ma diversi, che gravitano felicemente per i fatti loro e senza disastri ai margini dell’industria dello spettacolo – ma anche ai margini della dignità artistica standardizzata dai sepolcri imbiancanti che, fosse per loro, non si sarebbe mai andati oltre Euripide, Eschilo e Sofocle. Della stand-up sappiamo, dell’hip hop pure; un po’ meno conosciuta è la spoken word, poesia orale e popolare declamata in spazi pubblici e caratterizzata da una totale semplicità (niente musiche niente accessori niente fronzoli solo la parola) e altrettanta libertà. Dalla spoken word deriva poi il concetto di poetry slam, un modo per stimolare il pubblico e incentivare i poeti a esibirsi, ovvero una competizione tra bardi di strada in cui la performance viene giudicata e premiata da alcuni membri del pubblico selezionati casualmente. Sapete chi è stato il campione mondiale di poetry slam nel 2022? L’italiano Lorenzo Maragoni. E sapete che spettacolo ha portato in giro Lorenzo Maragoni negli ultimi tempi? Si intitola Stand Up Poetry ed è l’impossibile centro di gravità attorno a cui ruota la trimurti di cui sopra, stand-up, hip hop e spoken word. Sapete che Stand Up Poetry è disponibile per intero su YouTube ed è stato visualizzato la miseria di 621 volte? Di cui le ultime 21 sono mie?
Signori, signore. E anche ragazzə, via. Lasciatevi sussurrare piano che Maragoni è davvero un campione. Non solo per la coccarda del poetry slam che si è portato a casa. Stand Up Poetry è un’esibizione davvero sontuosa, un inno a quella trinità di discipline che è riuscita ad aggirare il problema dei tre corpi. È perfetto. È uno spettacolo di poesia performativa che ha la struttura a parentesi della stand-up e il ritmo puntuale del rap. Negli spazi in cui, nel monologo comico, si inserisce il bit – l’unità tematica minima di comicità, composta da una o più battute a seconda della scelta narrativa del performer – in Stand Up Poetry Maragoni recita un suo poema, introdotto da un collegamento minimale fra un bit e l’altro. Ma allo stesso tempo, lo spettacolo è anche un concerto rap senza accompagnamento. Maragoni “canta” i suoi pezzi, così come sono scritti e intonati, e lascia che sia il flow (la ritmica e la cadenza con cui ci si esprime all’interno della metrica) a creare il ritmo musicale. Ed è una macchina da guerra, con il suo notevole accento ternano mitigato dagli anni passati a Padova a studiare da statistico, prima di (ri)scoprire il teatro e venire introdotto alla poetry slam.
Maragoni parla di poesia e racconta la disciplina in una maniera che non esiterei a definire poetica, commentandomi da solo con un meritato “ma dai?!”. Maragoni dice che “Una poesia non è nulla. È quello che era, prima dei tutorial, Salvatore Aranzulla”. Dice che “Una poesia è una canzone senza ritornello, è un racconto interrotto sul più bello, è Clint Eastwood senza cappello, uno studente senza un appello. Straordinario. Un sussidiario, con l’immagine di un cammello senza il confronto con un dromedario”. Conclude facendoci notare che “È una nota stonata che suona bene, è una foto sfuocata che guardi sempre, è una cosa che sembra voler dire una montagna di cose e poi la leggi e non vuol dire niente. E poi la incontri per caso, di nuovo, una sera, al momento giusto e l’ascolti e improvvisamente, senza preavviso, vuol dire tutto”. Ma c’è anche una postilla piena di consapevolezza, ovvero “Cosa cazzo me ne frega di sentire una poesia sui poeti, è come dire che hai fatto i biscotti sbriciolando altri biscotti”. Maragoni gioca con la lingua – la poesia dedicata alla sua confusione sessuale e a Carlo è magistrale – omaggia i suoi genitori e le sue origini (l’Umbria, “spugna dalla parte ruvida dove l’amore è come il pane dei nostri fornai dopo le 11 del mattino: ce l’avevamo, ma è finito), si scioglie la lingua senza mai mangiarsi una parola; impressiona, diverte e commuove nell’arco della stessa composizione. E firma uno spettacolo unico e memorabile.
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