In un documentario fiume (225 minuti) del 1995 realizzato per il British Film Institute e intitolato Un secolo di cinema. Viaggio nel cinema americano di Martin Scorsese, quel regista lì del titolo elencava i suoi 112 film statunitensi preferiti dividendoli in quattro categorie di autori. Una di queste era quella degli imbroglioni (in originale smugglers, contrabbandieri), ovvero quella dei registi che fra le pieghe dei loro film popolari e di genere (melodramma, musical, western, guerra, comico) riuscivano a nascondere “messaggi sovversivi”. Molto bello. Dico queste cose perché, secondo me, il vero genere imbroglione (e contrabbandiere) della tv è proprio la sitcom. Un’egida che certamente ha protetto le peggio cafonate lesive dell’intelligenza dello spettatore; ma è anche stata terreno fertile per messaggi sovversivi – sempre tra virgolette, ma non le metto più perché sono bruttine da vedere. Le sitcom hanno dato rappresentanza agli afroamericani – Amos ‘n’ Andy, e un paio di lustri più tardi I Jefferson et alia – quando le leggi Jim Crow e la segregazione erano ancora belle vispe; hanno mostrato il primo personaggio omosessuale (Billy Crystal! in The Corner Bar) quando tanta gente ignorante o stupida era ancora convinta che l’omosessualità fosse una malattia; hanno propugnato un modello femminile non vacuo di successo (The Mary Tyler Moore Show) quando i benefit per le segretarie d’azienda erano ancora le pacche sul culo. Le sitcom sono popolari e sanno essere sovversive, per questo le stimiamo forte.
E ci ricordiamo che le sitcom stimiamo forte soprattutto quando spuntano dal nulla cose belle come Primo – prodotta e distribuita (si fa per dire) da Amazon Freevee, contenuto extra collegato agli smart tv americani marchiati Prime Video – la cui sovversione sta nel raccontare una famiglia latina amorevole, funzionale (nonostante le normali idiosincrasie umane magnificate dall’obbiettivo grottesco della sitcom) e soprattutto autobiografica. Non vi sto a raccontare i motivi per cui una premessa del genere dovrebbe essere ancora sovversiva nel 2023, basta l’immagine di Donald Trump che sta per ricandidarsi alle primarie per le presidenziali.
Rafa è un sedicenne di origini messicane che vive a San Antonio, Texas ed è cresciuto senza padre. Non che ce ne sia particolare bisogno – la madre Drea è una turbo campionessa nell’arte di saper stare al mondo – ma la mancanza di una figura maschile di riferimento per Rafa è stata compensata da un mostro mitologico a cinque teste (di fava), tante quanti sono i suoi zii. Un pool di adorabili scemi pagliacci che quando sono insieme si comportano come se avessero ancora tredici anni e devono costantemente essere tenuti in riga da Drea.
Gli zii sono estremamente protettivi nei confronti del nipote – che chiamano primo, cugino, perché sono dei teneri bamboccioni – e oltretutto sono ultra competitivi l’uno con l’altro, dunque tentano di influenzarlo ognuno a seconda della propria personalità come se fosse una gara fra loro. Le possibilità sono infinite per il futuro di Primo, seguendo idealmente l’esempio di ognuno dei suoi zii: andare al college, arruolarsi nell’esercito, cominciare a lavorare subito dopo il diploma, cazzeggiare fino a data da destinarsi riflettendo sul senso della vita, fare rissa e spassarsela. Messaggi discordanti e il più delle volte controproducenti, ma pur sempre carichi di affetto sincero e di buona volontà.
Le questioni aperte dall’episodio pilota sono due e riguardano scelte importanti per le quali il ragazzo ha bisogno di consigli: Rafa ha la possibilità e i voti per riuscire a essere ammesso in un’università prestigiosa, anche se si tratterebbe di un epocale sacrificio economico per la madre; e Rafa si sta lentamente ma inesorabilmente incapricciando di Mya, la nuova vicina di casa. Riuscirà il nostro eroe ad accogliere i calorosi consigli degli zii senza farsi troppo influenzare, ma piuttosto imparando a ragionare e scegliere con la propria testa? Spoiler: la risposta è sì. Primo è pur sempre una sitcom.
La storia di Rafa è quella – abbastanza pari pari, a leggere le note di produzione – del giornalista e scrittore Shea Serrano. Che solitamente si occupa di pallacanestro e cultura pop su The Ringer, Grantland e Twitter, oltre a essere autore di libri non fiction (The Rap Year Book, Basketball (and Other Things)) di gran successo al di là dell’oceano; ma qua si lancia nel vuoto e debutta come showrunner per raccontare, attraverso la lente deformata della sitcom, la storia della sua adolescenza pazzerella, passata ad avere cinque zii impiccioni e di buon cuore al posto di un padre.
Primo funziona alla grande pur senza rivoluzionare il linguaggio del genere; sceglie l’approccio narrativo orizzontale girato con macchina da presa singola, che non costringe la messa in scena a limitarsi a un tot di location da teatro di posa e permette le condizioni ideali per modellare la parabola di crescita dei personaggi. E poi il ragazzo ha appesa in camera la divisa di Manu Ginobili. Non gli si può proprio dire niente.
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